A 8 anni dai tragici eventi che colpirono i militari della Folgore in Afghanistan ripropongo oggi, a ricordo degli Amci Caduti, un pezzo scritto allora per “Famiglia Cristiana”.

Dall’aeroporto internazionale di Kabul, la strada procede dritta fino alla rotonda di Massud e da lì corre spedita verso la sede del comando di Isaf e verso le principali ambasciate straniere: l’avrò percorsa centinaia di volte.

Nel 2006, appena arrivato in Afghanistan con gli alpini del 2° reggimento di Cuneo, l’avevo vista piena di buche, segno evidente di anni di incuria e di guerra. Un mese fa, quando l’ho fatta per l’ultima volta con i paracadutisti del 186° reggimento, si era radicalmente trasformata: era una strada asfaltata, trafficatissima, costruita grazie agli aiuti economici internazionali.

«Ci vediamo per la cerimonia di rientro a Siena, capitano». «A presto ragazzi, Folgore!». Il nostro è stato un arrivederci sentito, un abbraccio fraterno, fuori da ogni rapporto gerarchico, tutti convinti di rivederci a breve per raccontarci gli ultimi mesi di missione. Giovedì 17 settembre, invece, un attentatore suicida si è fatto esplodere al passaggio di un blindato Lince provocando la morte di 15 civili afghani e 6 soldati italiani. Tra loro anche Davide, Antonio, Gian Domenico e Matteo, i ragazzi che in più occasioni mi hanno scortato per le vie del centro della capitale e con cui era nato un forte legame che forse solo chi è militare può capire a fondo.

Una Toyota Corolla bianca. Quel tipo di auto, il più diffuso, è diventato un incubo per i militari impegnati a Kabul e a Herat. Quasi tutti i “warning”, gli avvisi che il capo ufficio informazioni e la sala operativa danno alle squadre o ai plotoni che escono parlano quasi esclusivamente di loro. Cambiano i numeri delle targhe. Che, però, in Afghanistan son merce rara.

Uscire da Camp Invicta, quartier generale dei circa 400 militari italiani presenti a Kabul, per andare verso il centro della città o nelle aree rurali controllate dai nostri paracadutisti sta diventando sempre più complicato. I primi contingenti a Kabul, ricordo, giravano su gipponi in vetroresina o dalla scarsa blindatura. Adesso i militari sono passati ai super protetti Lince, automezzi che in più occasioni ci hanno salvato da morte certa. L’evoluzione nel campo degli automezzi è proceduta di pari passo con quella degli equipaggiamenti e degli armamenti: i visori notturni, i radar per la sorveglianza del campo di battaglia, le camere termiche, solo per citarne alcuni, erano strumenti il cui utilizzo era impensabile anni fa.

Questo ha sicuramente permesso all’Esercito di moltiplicare pattuglie e missioni sul campo, anche in posti difficili o lontani. Ma non basta. Gli alpini e i paracadutisti che si sono dati il cambio hanno potuto constatare come l’assistenza alla popolazione, fatta di mille gesti concreti, abbia iniziato a dare i primi frutti. Mollare ora sarebbe un peccato.

So bene che questa cosa, detta da un ufficiale, potrebbe essere intesa come vuota retorica. Non è così. Il 5 maggio del 2006, quando il capitano Fiorito e il maresciallo capo Polsinelli caddero vittime di un attentato terroristico nella valle di Musahi, i rapporti con la popolazione locale erano quasi inesistenti. Al passare dei veicoli militari gli abitanti si chiudevano nelle case. Da allora i progetti di aiuto e di ricostruzione a vantaggio della popolazione delle aree sotto il diretto controllo italiano si è messa in moto in maniera crescente, accompagnata da una capillare espansione delle aree controllate dai militari.

Capita sempre più spesso di vedere le persone fuori dalle case salutare i soldati italiani che attraversano il villaggio. Ormai gli abitanti portano le bestie alle vaccinazioni organizzate dal veterinario militare, si lasciano visitare dai nostri dottori, le donne vengono alle nostre basi per prendere medicinali o per far vedere i figli. Non c’è vergogna nel manifestare la felicità per un nuovo pozzo, un canale irriguo appena scavato, un ponte finito o una strada costruita come si deve che consegniamo loro.

La macchina messa in moto nel 2006 non si è fermata. Due anni dopo, il programma di assistenza scolastica e medica si è fatto ancora più ambizioso con la costruzione di diverse cliniche e di alcune scuole finanziate grazie al contributo del nostro ministero della Difesa e di tante realtà locali (comuni, province o regioni). Sono nati così – ne cito solo alcuni – i progetti “Cuneo-Kabul”, “Torino-Kabul”, “Piemonte-Kabul”, “Bolzano-Kabul” e “Granda-Kabul”, ognuno con una precisa e importante infrastruttura da costruire (determinante per il lungo termine) legata a vari aiuti di impatto immediato come la distribuzione di alimenti o coperte.

Questo strano connubio tra presenza armata e cooperazione civile e militare ha visto il suo più autorevole riconoscimento ufficiale nel maggio 2008, quando una direttiva del comando (americano) di Isaf ha lodato pubblicamente quanto fatto dagli alpini ranger e dai paracadutisti nel distretto di Surobi, portandolo ad esempio a tutti i contingenti presenti in Afghanistan. Tutto ciò è stato realizzato dai nostri militari mentre proseguiva l’addestramento delle forze di sicurezza afghane. Sono arrivati anche i primi importanti successi più propriamente militari, come la neutralizzazione (sì, abbiamo combattuto e sparato) della più importante cellula terroristica talebana nell’area a competenza italiana – era il 27 aprile 2009 – ad opera dell’esercito afghano e degli alpini del 3° reggimento oppure la grande operazione nella valle di Musahi del 3 luglio (raccontata dagli inviati di Famiglia Cristiana) e quella dell’11 agosto, organizzate dai paracadutisti di Siena per neutralizzare (catturandoli o eliminandoli) chi aveva teso imboscate ai militari Isaf.

Chiariamo un punto: la presenza ostile (talebani, signori della guerra, narcotrafficanti, banditi di strada: gli insorti, insomma) non è diventata improvvisamente inarrestabile. È vero semmai il contrario. Le truppe del legittimo Governo afghano e quelle occidentali che le affiancano, italiani in primo luogo, sono più presenti, attive e reattive. E il fatto che questa presenza dia fastidio è la migliore testimonianza di quanto importante sia il lavoro fatto laggiù.

Matteo Mineo
(da Famiglia Cristiana, 21 settembre 2009)