Oggi, giovedì 1 dicembre, si aprono i battenti di Art Basel Miami Beach, l’appuntamento americano di una delle rassegne d’arte internazionale più importanti al mondo che, ogni anno, è possibile visitare anche a Hong Kong e Basel. Per il 2017, rispettivamente, le giornate saranno dal 23 al 25 marzo e dal 15 al 18 giugno.
A Miami Beach, in questi giorni, sono quindi arrivati artisti, galleristi, esperti, compratori, giornalisti e, ovviamente, appassionati, pronti a visitare le 269 gallerie di arte moderna e contemporanea provenienti da tutto il mondo e a vedere il più possibile degli oltre 4000 artisti che espongono pittura, scultura, disegno, installazione, stampe, fotografia, film, video e arte digitale.
A Art Basel Miami Beach c’è anche Federico Solmi.

Ritratto di Federico Solmi. Courtesy Musee Magazine.
Artista poliedrico, versatile e assolutamente impossibile da circoscrivere in una definizione, lavora, o meglio, manipola, o, ancora, decostruisce; no, in realtà, smembra, corrode e scarnifica, tutto. Sì, tutto.
I simboli. I personaggi. Gli uomini. L’ambiente. La storia. Tutto quello che l’artista ha visto, ha sentito, ha letto, ha studiato, ha vissuto, è passato in un tritacarne per poi essere ri-assemblato e servito su un piatto con su scritto «Eccoti la civiltà». L’artista si fa soggetto e oggetto di una civiltà che divora e inquina, deturpa e riproduce, umilia e consacra. Il suo è un invito a fagocitare, oltre il possibile e ossessivamente tutto l’orrore dell’operato degli uomini. Nelle sue opere la storia è il palcoscenico, e i personaggi, siano essi politici, businessman, i ricchi possidenti senza scrupoli o i volti conosciuti della storia umana, sono le marionette affamate, assetate, indegne, ignobili. Noi tutti, siamo quel popolo variopinto e rumoroso che sta sullo sfondo con gli occhi sgranati a guardare e a non vedere.
Film, animazione e videogiochi da una parte e disegno e pittura dall’altra, sono gli strumenti antichi come tecnologici con cui realizza le sue opere di arte digitale in medio e grande formato.
Federico Solmi, vero e proprio fiume in piena, con adorabile e intatto accento bolognese narra e spiega generosamente la sua ricerca artistica, i meandri dell’America in cui vive e la stasi cristallina della cultura in Italia. Fino all’8 gennaio 2017 è possibile vedere le sue opere anche alla Quadriennale di Roma, nella mostra Cyphoria, a cura di Domenico Quaranta.
Come definiresti la tua presenza ad Art Basel Miami Beach?
La prima volta che ho esposto a Art Basel Miami era il 2005. Era ancora un evento in via di formazione ma io ero felicissimo. Essendo in America, per me era davvero bello partecipare a uno degli eventi più belli e importanti al mondo. Se un artista riesce a esporre con una certa continuità in una manifestazione come Art Basel ha di certo una visibilità notevole. Quest’anno farò parte di due stand ad Untitled Miami Beach, una fiera satellitare, una delle migliori. Ho preparato quattro diverse opere abbastanza grandi e sarò lì per confrontarmi con gli artisti provenienti da tutto il mondo. Per me è un appuntamento importante. Mi piace molto di più preparare mostre personali e museali, ma comunque la fiera fa parte di una realtà che è il mercato dell’arte. Il pubblico adora andare a vedere e comprare nel grande avvenimento. E questi avvenimenti sono diventati enormi e fondamentali.
Delle vetrine imprescindibili.
Sì lo sono. Ma l’importante è esserci con costanza. Da oltre dieci anni espongo qui regolarmente. A volte ci sono artisti che espongono un anno nella migliore fiera internazionale. Poi nulla per cinque anni. Ecco questo è dannoso. Esserci con costanza significa anche far avanzare la mia ricerca, la mia personalità, la mia determinazione.
Da molti anni seguo il tuo lavoro e trovo tu sia un artista che cambia sintassi espressiva velocemente. E oggi è possibile vederti anche alla Quadriennale di Roma. Che cosa ne pensi?
Sono stato felice di ricevere l’invito per la mostra curata da Domenico Quaranta. Ma, lavorando molto in America, anche con le mie opere, credo si possa dimostrare quanto l’Italia sia ancorata a certe logiche poveriste, minimali, accademiche. In confronto ad esse, la sezione curata da Domenico sembra il futuro. Un futuro già presente. Tutti i nuovi linguaggi e tutte le tecnologie possibili, sono difficili da comprendere e accettare, inizialmente, però la realtà è che i nostri figli nascono e a un anno hanno un iPad in mano. L’arte non deve essere vista per l’impatto che ha nel presente ma per l’impatto che potrà avere fra quindici anni. Questa mia visione delle cose, secondo me, è stata la mia forza. Avendo sempre avuto un linguaggio artistico tecnologico, sempre nuovo, ibrido, fra pittura, video, animazione, disegno, per me è stato difficile imporre la mia arte, però quello che mi ha tenuto molto determinato è il fatto che tutte le nuove generazioni entrate nel mondo dell’arte hanno sempre visto in me un grande potenziale, e ora che ho l’appoggio di fondazioni, curatori e gallerie ovviamente sono in un momento proficuo. Quattro o cinque anni fa era molto più duro per me imporre il mio linguaggio, proprio perché nuovo.

The Jumping Badger, 2015. Pittura acrilica, foglia d’oro e d’argento su plexiglass, schermo Led 55 pollici, video loop. Dimensioni, 61×91 cm. Courtesy Luis De Jesus Los Angeles.

The American Fabius, 2016. Pittura acrilica, foglia d’oro e d’argento su plexiglass, schermo Led 55 pollici, Video loop. Dimensione 122 x 213 cm. Courtesy Luis De Jesus Los Angeles.
Il tuo linguaggio espressivo ha fatto fatica a filtrare ma in America, oggi, è ai vertici. In Italia, invece, hai trovato un panorama culturale cristallizzato su un nobile passato.
Sì, in maniera drammatica. Claustrofobica direi. Chi va alla Quadriennale vede un progetto in cui ci sono dieci fra i più rinomati curatori italiano. Però se tu entri nella sala dove c’è la mostra Cyphoria vedi un’esuberanza di colori, di tecnologia, di artisti che prendono rischi. È qualcosa di eccitante che riflette quella che è la vita, piena di tecnologie e di nuovi modi di comunicare, espressioni di un mondo in continua evoluzione. Poi, nove su dieci mostre, sono invece ancorati nei linguaggi del passato. Non voglio essere presuntuoso ma non c’è niente di nuovo. È Domenico Quaranta che fa vedere quello che sta succedendo. È lui che è un curatore anomalo. C’è chi prende rischi e c’è chi porta avanti discorsi da quarant’anni.
Ma le Istituzioni chiedono questo?
Assolutamente sì. Anche il mercato. La differenza fra me e gli altri artisti italiani presenti in questa sezione è che io, negli anni, mi sono costruito relazioni con grandi collezionisti e istituzioni americane che sostengono un linguaggio avanguardistico. Mi ha fatto tanto piacere venire in Italia però non trovo tanta differenza fra gli artisti che hanno un linguaggio che guarda al futuro e chi ha un linguaggio arretrato. Penso stiano male allo stesso modo perché in Italia non succede niente di reale. Nessuno riesce ad uscire dall’Italia in questo momento. Dal punto di vista economico o di carriera, l’Italia non offre nessuna finestra internazionale, nessuna occasione. In Italia si concedono le opportunità a tre artisti, tutti gli altri devono sparire. Questo è quello che è successo negli ultimi vent’anni. Poi certo, quando un artista ha 80 anni, lo vanno a riscoprire e valorizzare. Magari ha vissuto in povertà tutta la vita e ora si scopre quanto fosse bravo. Lo stesso sistema però li aveva emarginati e distrutti. Tutto questo per una comodità economica, sostanzialmente.
Tu sei riuscito a fuggire da tutto questo e a crearti una tua storia.
Assolutamente sì. Sono venuto da solo negli Stati Uniti. Senza università, un appoggio logistico, senza visto. Sono venuto qui per fare l’artista. A livello economico non c’era una grande differenza fra partire da Bologna e andare a Milano o a New York. Quindi sono venuto qui. Volevo stare nel centro del mondo per vedere delle mostre eccezionali e conoscere gente piena di energia e di motivazione. Artisticamente ho fatto tutto qui. Non ho mai studiato in Italia, non ho mai frequentato professori. Adesso insegno alla Yale University School of Art e divido il mio tempo fra Brooklyn e New Haven, dove vado un paio di volte alla settimana. Quello che tu vedi però, inteso sia come linguaggio artistico che come carriera, è stato un processo molto lungo. Un processo molto lungo che comprende assimilazione di una nuova cultura, di un nuovo Paese, e più che altro perseverare con determinazione e umiltà per imparare e crescere, per trovare un linguaggio tutto mio. Volevo essere riconoscibile da lontano, a prescindere che le mie opere piacessero o no. Non volevo imitare o copiare o seguire nessuno. Per me arte è espressione di un linguaggio personale e non di movimenti o correnti accademiche. Sono entrato in un periodo assolutamente positivo ma voglio crescere. Non farò video painting per tutta la vita. Voglio lavorare duro per vedere dove mi porta questa avventura nei prossimi anni. Sicuramente sarà un lavoro legato alle immagini in movimento, alla pittura, al mio forte interesse per quello che succede nel mondo, nei conflitti che vivono gli uomini. Mi interessa la Storia. Guardo tanto altre cose al di fuori del circolo dell’arte contemporanea.

The Descent, 2015. Pittura acrilica, foglia d’oro e d’argento su plexiglass, schermo Led 55 pollici, Video loop. Dimensioni, 91×122 cm. Courtesy Luis De Jesus Los Angeles.
Sei arrivato spontaneamente a parlare dei tuoi temi. Dei personaggi, della storia, della società.
In questa serie, che si chiama The Brotherhood, vado a riscoprire diversi personaggi storici. Ci sono il faraone egizio, Gengis Khan, Benito Mussolini e George Washington. Vado a rispolverare libri di storia, siti e avvenimenti che dall’opinione pubblica sono stati dati per scontati. Questi personaggi sono stati archiviati come patrioti, eroi nazionali, ma se vai a studiare le loro vite, le loro storie, americana o italiana che sia, se vai a vedere la loro integrità scopri che hanno fatto cose orribili. George Washington dai nativi americani era chiamato Il distruttore di villaggi, ad esempio. Vado a rivedere i grandi miti della storia, diventati tali ingiustamente e solo grazie alla manipolazione delle notizie e alla propaganda. Per restare ai giorni d’oggi. Nelle recenti elezioni americane mi sono sentito offeso, e non perché ha vinto Trump, ma perché i media americani davano per vincente Hillary Clinton ma la loro era propaganda. In realtà i grandi media non hanno capito il Paese. L’America è un Paese estremamente diviso, arrabbiato, pieno di tensioni. Anche questo evento mi spinge sempre di più a fare la mia ricerca, a lavorare di più, a diventare sempre più estremo. Anche nel mondo dell’arte in cui vivo anche io, queste cose sono tabù. Spesso l’arte è vista come mezzo per soddisfare l’aristocrazia. A me di questo non me ne frega niente. Io faccio l’artista perché voglio dire delle cose. Faccio una ricerca seria, sia linguistica che personale, e questa è la mia vita.
Stai lavorando a nuove ricerche?
Quando si tratta di lavorare nella storia, in questo caso la storia americana, la ricerca diventa un libro infinito. Mi sto divertendo tantissimo e sinceramente non voglio uscirne. The Good Samaritans, una delle opere portate a Miami racconta in maniera immaginaria e satirica l’arrivo dei conquistatori europei in America. C’è Cristoforo Colombo, e insieme a lui ci sono altri personaggi che non c’erano realmente ma il linguaggio mi permette di fare i salti che ritengo più giusti. Beh, per tutti Colombo è un grande esploratore. Ecco, questa è un’offesa per l’umanità. Colombo non è un esploratore. Aveva grandi talenti in materia di navigazione ma è uno che ha massacrato i nativi americani, e il suo modello è stato adottato dagli americani per creare le colonie e impedire loro di creare una economia. Pensare a Colombo come eroe sia per gli americani che per gli italiani, è una roba che mi fa venire il mal di stomaco. Dovreste leggere il libro Open Veins of Latin America di Eduardo Galeano. Colombo ha distrutto l’innocenza e la bellezza di un popolo incredibile.
La tua società, i tuoi esseri umani sono incapaci di resistere o reagire a tutto ciò.
Mi viene in mente il serial House of cards. Hai visto che macchinazioni incredibili? E questo è uno show. Ho chiesto a una collezionista che vive a Washington quanto ci fosse di fantasia e lei mi ha confermato che è tutto ampiamente vero. Proprio ieri nell’episodio c’era un momento in cui una giornalista faceva una domanda scomoda e subito veniva portata via dalla sala e cancellata dalla lista dei giornalisti accreditati. Tu pensi di leggere i grandi media dell’informazione, e pensa ai più grandi, ma in realtà sono tutti parte dell’ingranaggio delle corporazioni e passano solo le notizie che fanno comodo. Qui ti fanno vivere nell’illusione della democrazia e dell’informazione vera, ma in America l’informazione non esiste. Gli interessi delle grandi corporazioni, quelle che rendono forti gli Stati Uniti, sono quelli da proteggere e li protegge la politica. Oggi si va in Iraq per le compagnie petrolifere e per gli armamenti, ma ci si va con delle bugie e delle finte prove. Questa è l’America di oggi, che poi è la stessa di trecento anni fa. Un Paese fondato su tante ingiustizie nonostante oggi sia il miglior Paese in cui vivere. L’America è stata sempre governata da personaggi come Clinton o Trump. I Founding Fathers erano grandi proprietari di terreni e di schiavi. Bisogna studiare la storia per capire l’attualità.
Critico quanto satirico, arrabbiato quanto irriverente, surreale quanto violento, Federico Solmi è uno dei maggiori artisti italiani nel mondo. E, per dirla con lui, che le sue opere piacciano o no, è anche un unicum di incredibile vitalità artistica e irriverenza linguistica capace di far arrivare, immediatamente, anche agli occhi di chi lo guarda per la prima volta, il suo punto di vista di uomo che sta dalla parte degli uomini.
Francesca Pieroni