Sufjan Stevens, Nico Muhly, Bryce Dessner, James McAlister
Planetarium (CD 4AD – 9 Giu 2017, 17 Tracce – 74:00)
Nelle vane discussioni tra «conservatori» e «progressisti» musicali (ognuno resta trincerato sulle proprie posizioni) arriva sempre, puntuale e inesorabile come un servizio di Vincenzo Mollica su Vasco, Alda Merini e Milo Manara tutti insieme appassionatamente, la seguente domanda: «Dimmi un autore di oggi anche solo lontanamente accostabile a mostri sacri come…».
Da un po’ di anni, quando il ghigno beffardo tradisce la sicumera di chi ha sferrato il colpo decisivo, io mi gioco sempre la stessa carta e rispondo: Sufjan Stevens da Detroit.
Se i Mostri Sacri diventano tali per capacità creativa, profondità dei versi e originalità delle partiture musicali, allora Mr Stevens, fra qualche lustro, potrà entrare a buon diritto in un club così esclusivo. Per chi non avesse ancora la fortuna di conoscerlo, segnalo due album: Illinois del 2005 e Carrie & Lowell del 2015.
E se poi, come me, non potrete più stare senza e la sorpresa di una sua nuova produzione vi farà sobbalzare, mettetevi comodi e preparatevi a un lungo viaggio planetario.
Non voglio sprecare troppo inchiostro (digitale) per le informazioni sulla genesi e la realizzazione di questo progetto. Trovate tutto facilmente in rete. Basti sapere che il lavoro è frutto di una collaborazione tra il Nostro, il compositore Nico Muhly, Bryce Dessner, chitarrista dei National’s e James McAlister, batterista di Stevens, ed è il coronamento di un’operazione iniziata nel 2011. I ruoli sono così “spartiti”: al cantautore di Detroit la parte vocale e i testi, Muhly alla parte orchestrale e sinfonica, Dessner alle chitarre e alla composizione, McAlister alla sezione ritmica e all’elettronica.

Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly, James McAlister.
Il risultato è molto di più e molto meglio della semplice somma delle parti. Tutto (ri)suona in perfetta armonia, quasi a replicare quella luminosa ed eterna dell’universo, concept dichiarato dell’intero lavoro. Il contributo dei quattro artisti è tanto riconoscibile quanto meravigliosamente bilanciato e complementare. Certo, la voce e le melodie di Sufjan Stevens sono gli elementi d’impatto più immediato, e oggi non riesco a immaginare niente di meglio per “sonorizzare” il cosmo.
O forse sì: l’aggiunta delle orchestrazioni di Muhly, dei ricami chitarristici di Dessner e dei ritmi in filigrana di McAlister.
Il disco è lungo e corposo, e non potrebbe essere altrimenti visto che stiamo percorrendo distanze misurabili in anni-luce, ma il senso di leggerezza e sospensione è talmente pervasivo che una volta tolte le cuffie (consigliatissime!) penserete sia tornata l’ora solare…
Quasi tutte le diciassette tracce che compongono Planetarium rimandano a un corpo celeste. Neptune apre il disco: la voce di Sufjan, un pianoforte e poco altro. Un’involontaria (?) dichiarazione d’intenti, il viaggio nello spazio, che nella realtà concreta e ipertecnologica di oggi imporrebbe la ridondanza organizzativa, di strutture e materiali, nella dimensione spirituale dell’arte può e vuole essere intimo ed etereo: Chapeau!
Non mancano i passaggi dove i suoni acquistano forza e tridimensionalità (Jupiter, Mars, Saturn) ma la sensazione di misura e compostezza non viene mai soffocata dagli “effetti speciali”. Gli arpeggi di chitarra in Pluto potrebbero durare all’infinito. Earth è un disco nel disco. Alcuni brani sono intervalli in cui asteroidi, comete e buchi neri si trasformano da materia in suono (Halley’s Comet, Tides, Black Hole)
Planetarium è un disco ambient, prog, minimalista, cantautorale, elettronico, sinfonico, classico, moderno… Chiaro no?
Al di là di ogni definizione, che proprio un lavoro del genere sgonfia di significato, questa è musica come forma d’arte, dove talento, urgenza comunicativa e ispirazione si fondono generando bellezza. Qualcosa di prezioso da maneggiare con cura, ma da assumere in dosi massicce per disintossicarsi – almeno un po’- dalle brutture della quotidianità.
Un difetto? Non in senso assoluto, ma a mio sommesso parere non se ne può più del vocoder, del quale non sono mai stato un grande fan, che invece continua a stregare anche le menti più illuminate, contaminando dozzinalmente gli arrangiamenti di molte (troppe) canzoni, anche in questo album.
Sia chiaro, quando i quattro cosmonauti decidono di riportarci a casa con i cinque minuti finali di Mercury, l’atterraggio è dolce e il paesaggio dal finestrino ci appare più bello di come lo avevamo lasciato.
Lo ammetto (e forse si era capito), Planetarium era balzato in cima alla mia lista “da ascoltare quanto prima” non appena avevo letto il nome di Sufjan Stevens in copertina. Tutto il (magnifico) resto l’ho scoperto poi.
Con buona pace di quelli che «…Non ci sono più i musicisti di una volta… dimmi un autore di oggi anche solo lontanamente bla, bla, bla…».
Fabio Mennella