(Per favore, non chiamatemi cervello in fuga!)

Se in passato – diciamo quando mi sono iscritto all’università – mi avessero detto che ad anni di distanza sarei stato etichettato come “cervello in fuga”, semplicemente non ci avrei creduto. Non che l’idea di lavorare e vivere all’estero mi fosse invisa, ma semplicemente pensavo che fosse un destino riservato ad altri, e che io avrei speso felicemente la mia vita in Italia, nelle migliori delle ipotesi come ricercatore in qualche ateneo o compagnia privata, o tecnico in qualche laboratorio clinico. Tali erano le mie aspirazioni e obiettivi. Inoltre, a supportare la convinzione che per me vivere all’estero -in particolare in paesi anglofoni- non fosse una concreta possibilità c’era il mio inglese veramente modesto che non trovavo tempo di migliorare, e che era solo sufficiente a comprendere letteratura scientifica. Mi dicevo che al massimo sarei potuto andare in Francia, forte di una capacità linguistica di cui andavo molto fiero, risultato di anni di studio appassionato sin dalle scuole medie e di soggiorni estivi nei sobborghi parigini. Le cose cominciarono a cambiare dopo circa un anno dall’iscrizione al corso di dottorato, quando mi invitarono a presentare le mie ricerche ad una conferenza in California che si sarebbe tenuta a meno di un anno di distanza. Ricordo l’eccitazione quando annunciai ai miei che mi accingevo al mio primo viaggio negli USA. Vidi eccitazione anche nei loro occhi, mista però a qualcosa di altro che al tempo non capii, e che forse era un presagio di ciò che è la mia realtà di emigrante oggi. Non avendo più scuse, cominciai a studiare l’inglese con metodo, ogni giorno per circa due ore dopo cena sui libri, ad ascoltare le cassette dei corsi d’inglese DeAgostini col walkman quando andavo in bici o camminavo da solo, a guardare videocassette di film in inglese sottotitolati! La paura di andare alla conferenza e non capire o non essere capito mi spronava sopra ogni cosa.

Il resto è storia. Andai alla conferenza, capii e mi feci capire, anche se non senza difficoltà. Conobbi una professoressa della University of Washington a Seattle interessata alle mie ricerche che mi invitò a lavorare nel suo laboratorio come “exchange student” per circa un anno e mezzo per completare la tesi di dottorato. Accettai. Discussa la tesi ritornai a Seattle per finire alcuni progetti prima di ritornare stabilmente in Italia. Quattordici anni dopo scrivo queste righe dalla mia casa di West Seattle, dopo aver messo i bambini a letto e essermi riposato un poco. Ho appena ricevuto la mail dal mio dipartimento che annuncia la mia promozione a Professore Associato. Sono felice.

Non credo che la mia storia sia diversa da quella di tantissimi altri. Ci tengo a precisare però che io non mi ritengo affatto un “cervello in fuga”, e anzi trovo l’espressione alquanto superficiale e trita, come se volessero impormi che in Italia non stessi bene. Io ho la ferma convinzione che tutto ciò che ho ottenuto lavorando e vivendo a Seattle l’avrei potuto avere anche in Italia, anche se forse con tempistiche e con sacrifici di diverso tipo. Non ho tuttavia motivo di credere che certe vie mi sarebbero state precluse se fossi rimasto in patria. Penso che il duro lavoro e la dedizione alla fine ti premino ovunque tu sia. Non sono fuggito inveendo contro le storture del sistema, ma semplicemente ho fatto scelte in base alle occasioni che si sono presentate giorno dopo giorno e che ho ritenuto opportuno coglierle in quanto potenzialmente foriere di felicità. Tali scelte hanno semplicemente finito per radicarmi in un luogo che purtroppo è lontano da casa. È raro che si sia chiamati a scegliere tra situazioni in cui ci sia tutto da guadagnare o tutto da perdere. Si deve mettere tutto sui piatti della bilancia e vedere quale piatto penda maggiormente verso la nostra felicità. E scegliere di conseguenza.

As simple as that. No brain drain here!

L’importante è non lasciare mai l’Italia con la mente e cercare di essere utili anche a distanza. Magari instaurando collaborazioni con università italiane, oppure ospitando studenti italiani per scambi culturali o, come me, facendo volontariato per fondazioni che si occupano di favorire il contatto e lo scambio di conoscenze tra scienziati, studiosi e imprenditori in Italia e in Nord America, come l’issnaf (www.issnaf.org), affinché i nostri mondi siano sempre più interconnessi.

Lorenzo Giacani