Egocentrico, sessista, razzista, maschilista. Sono soltanto alcuni degli aggettivi con i quali è stato dipinto Donald Trump dagli avversari politici, dagli elettori che non lo hanno votato e dalla stampa che non lo ha sostenuto. L’identikit è stato via via arricchito, durante la campagna elettorale e le prime settimane di presidenza, con altri elementi non precisamente positivi, dall’insofferenza nei confronti dei giornalisti alla mancanza di esperienza nell’amministrazione dello Stato, fino a rappresentare una personalità del tutto imprevedibile.

È proprio l’imprevedibilità dell’attuale Presidente degli Stati Uniti che sta tenendo il mondo con il fiato sospeso. Tutti sono convinti che cercherà di portare avanti con decisione il suo programma elettorale, nel quale si mescolano nazionalismo, protezionismo e isolazionismo in politica estera, ma sia i detrattori sia i sostenitori si chiedono quanto incideranno, sull’azione presidenziale, i contrappesi di cui il sistema politico e istituzionale americano è dotato. Sebbene il presidente Trump possa contare su una maggioranza repubblicana in entrambi i rami del Congresso, alcuni segnali in tal senso si sono già manifestati: la sospensione del decreto anti-immigrazione da parte di alcune corti di giustizia statali; le dimissioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn, per i suoi contatti impropri con la Federazione Russa; la rinuncia di Andrew Franklin Puzder, candidato come Segretario al Dipartimento del Lavoro, la cui ratifica in Senato era in bilico per le riserve di qualche senatore repubblicano.

Tra le misure pensate dalla nuova Amministrazione per rendere di nuovo grande l’America, spicca sicuramente la necessità di una chiusura fisica verso l’esterno, ostacolando l’immigrazione legale e reprimendo in maniera molto più decisa quella clandestina, e l’innalzamento delle tariffe doganali per proteggere i produttori statunitensi.

Azioni in contrasto con le politiche statunitensi dal secondo dopoguerra in poi, ma non del tutto estranee alla storia americana, benché si debba risalire di un secolo nel tempo per trovare situazioni analoghe.

Negli anni Venti del secolo scorso, i cosiddetti “Anni Ruggenti”, durante le presidenze Harding e Coolidge gli Stati Uniti modificarono drasticamente la loro strategia nei confronti del resto del mondo. L’idealismo wilsoniano, che li aveva spinti ad intervenire nel primo conflitto mondiale e successivamente a proporre una Società delle Nazioni in grado di governare la politica internazionale e prevenire i conflitti armati, era stato soppiantato da una decisa presa di distanza dalle vicende internazionali per concentrarsi sui temi di politica interna.

Qualche anno dopo la fine della prima guerra mondiale, l’inizio della ripresa economica in Europa aveva causato una drastica diminuzione dei prodotti agricoli che gli europei acquistavano dagli agricoltori statunitensi, i quali si ritrovarono con un surplus di produzione che il mercato interno non riusciva ad assorbire. La conseguente crisi del settore agricolo americano, associata ai rischi che altri settori produttivi correvano per dinamiche analoghe, spinse Washington ad agire per proteggere il sistema produttivo nazionale. Nel 1922 fu approvata la legge Fordney-McCumber, che prevedeva un innalzamento delle tariffe su molti prodotti importati. Negli anni successivi, diversi paesi europei adottarono misure analoghe come reazione alla politica commerciale statunitense. L’innalzamento generalizzato delle barriere doganali non favorì la crescita del commercio internazionale. Gli Stati Uniti conobbero un periodo di prosperità incentrato sui consumi interni, che però sarrebbe stato bruscamente interrotto dal crollo di Wall Street del 1929 e dalla gravissima depressione economica che ne seguì. A peggiorare la situazione, nel 1930 il Congresso americano approvò, con la legge Smoot-Hawley, l’aumento delle tariffe su circa 20.000 prodotti importati. La spirale dell’aumento delle tariffe a livello mondiale, così come aveva ostacolato lo sviluppo del commercio estero negli anni Venti, avrebbe aggravato gli effetti della depressione post-1929 per l’intero decennio successivo.

E se gli statunitensi in quanto produttori dovevano essere protetti dalla diffusione dei beni provenienti dall’estero, i cittadini statunitensi dovevano essere tutelati dall’invasione degli emigranti che, in quegli anni, giungevano a centinaia di migliaia l’anno in cerca di un futuro migliore.

Gli Stati Uniti sono un paese costruito dagli emigranti, ma la prevalente origine anglosassone e protestante dei secoli tra il Seicento e l’Ottocento aveva lasciato il posto, dagli inizi del XX secolo, ad un flusso di persone provenienti dall’Europa meridionale e orientale, portatrici di tradizioni diverse da quelle nordeuropee e generalmente di fede cattolica. Tra il 1900 e il 1914 gli immigrati dal Nord Europa erano passati da 116 mila a 253 mila, mentre le persone provenienti dalle regioni meridionali e orientali del Vecchio Continente erano aumentate da 314 mila a 921 mila. L’arrivo sul suolo americano della nuova ondata migratoria in cui la componente WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant) era divenuta decisamente minoritaria rendeva più difficile la fase di integrazione dei nuovi arrivati non soltanto per le difficoltà legate al mero assorbimento nel mercato del lavoro, ma anche per le rilevanti differenze culturali e religiose tra chi era da poco sbarcato in America e la popolazione residente. La diffidenza dei cittadini statunitensi nei confronti dei nuovi immigrati traeva quindi origine non soltanto dalla preoccupazione che questi ultimi rubassero il lavoro agli americani perché si accontentavano di paghe inferiori, ma anche dal timore che le tradizioni culturali e religiose di chi era appena sbarcato corrompessero il carattere americano originario.

Il risultato fu una serie di restrizioni sull’immigrazione che culminò nel Johnson Immigration Act del 1924, il quale stabilì un sistema di quote annuali per gli immigrati: per ogni nazionalità sarebbero stati ammessi un numero di stranieri fino al 2% del numero di persone di quella nazionalità residente negli Stati Uniti come risultava dal censimento americano del 1890. La scelta del censimento di riferimento (nel 1921 si utilizzò il censimento del 1910) privilegiava le persone provenienti dai paesi del Nord Europa: confrontando gli arrivi nei due periodi 1910-14 e 1925-1929, i tedeschi passarono da 32 mila a 47 mila, mentre gli italiani da 220 mila a 13 mila. Le nuove disposizioni sull’immigrazione non erano applicate uniformemente a tutti i possibili paesi di provenienza. Le limitazioni colpivano principalmente gli europei, e in particolare quelli meridionali e orientali, ma non erano applicate ad esempio ai messicani e in generale a chi proveniva dall’America latina. Lo storico Michael Parrish ci spiega perché: “la ragione per cui il sistema delle quote non venne applicato agli immigranti provenienti dal Sud [America latina] fu una sola, quella di garantire una continua offerta di manodopera a poco prezzo agli agricoltori americani, soprattutto della California e del Sudovest”.

Al netto della decisione dei giudici di sospendere il decreto presidenziale, le reazioni ostili all’Immigration Ban di Donald Trump nascono sia dall’attenzione ai diritti degli individui sia da considerazioni di carattere economico, come dimostrato dalle dichiarazioni di imprenditori che temono ripercussioni negative sulle loro imprese a causa della minore disponibilità di lavoratori stranieri. 

Sul fronte dell’innalzamento delle tariffe, il presidente Trump dovrà superare la contrarietà di chi nel suo paese, politico o imprenditore che sia, teme le i contraccolpi negativi di una battaglia di dazi analoga a quella combattuta negli anni Venti del secolo scorso. Dal 2001, anno in cui la Cina è stata accolta nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, le importazioni statunitensi da Pechino sono aumentate molto di più di quanto siano cresciute le esportazioni verso il mercato cinese. Limitatamente agli scambi di beni, le statistiche ci ricordano che tra il 2001 e il 2016 gli USA hanno incrementato le esportazioni verso la Cina da 19 miliardi a 115 miliardi di dollari, mentre le importazioni dal paese comunista sono passate da 102 miliardi a 462 miliardi di dollari; il deficit della bilancia commerciale di Washington con Pechino è quindi passato da 83 miliardi a 347 miliardi di dollari. Estendendo la comparazione alla bilancia commerciale con la Germania, un altro importante partner degli Stati Uniti ma anche uno dei principali concorrenti a livello mondiale, i dati forniscono un deficit che nello stesso periodo è aumentato da 29 miliardi a 64 miliardi di dollari. Non sembra quindi ragionevole immaginare che la Cina e la Germania accolgano eventuali aumenti tariffari americani sulle importazioni senza ricorrere a opportune contromisure per difendere i propri prodotti.

Probabilmente il presidente Trump avanzerà una nuova proposta comprendente restrizioni all’immigrazione e tenterà di modificare il sistema dei dazi per favorire i prodotti americani, ma non potrà ignorare le istanze di una parte non trascurabile del settore imprenditoriale statunitense, tendenzialmente contrario alla chiusura delle frontiere, né evitare di ricordare che la Cina detiene una quota non marginale del debito sovrano di Washington, che potrebbe divenire un efficace strumento di pressione in caso di avvisaglie di guerra commerciale avviata dall’innalzamento delle tariffe statunitensi.

Giovanni Ciprotti