La premiatissima edizione del Don Giovanni michielettiano, vista il 22 ottobre scorso alla Fenice di Venezia nell’allestimento della Fondazione Teatro La Fenice, è evidente frutto di una reinvenzione del capolavoro di Mozart e presenta una lettura scenica che ipostatizza l’archetipo del Don Giovanni e ne fa una presenza costante in scena, ovviamente anche quando non prescritto dal testo, per rappresentare l’ossessione del libertino nella mente degli altri personaggi. Un pensiero dominante che agisce ad ogni livello e trionfa alla fine quando, durante la scena finale d’insieme lui, anche se precipitato all’inferno, ritorna incolume per falciare tutti gli altri con un gesto della mano che li manda tutti giù per terra. Il titanismo ante litteram di Don Giovanni non potrebbe essere più eloquente. Per non recitare un’altra geremiade sull’attuale onnipotenza della regia (che si permette tra l’altro di disturbare continuamente l’esecuzione musicale di fastidiosi rumori scenici e vocali extrapartitura affermando la sua proterva supremazia sulla musica), dirò che il difficile e improbabile libretto dapontiano – tutt’altro che opera perfetta – ha certo bisogno di una lettura atipica e intelligente, e, a quanto pare, eludere la fedeltà al testo paga sempre, quando è Damiano Michieletto a farlo: il non luogo in cui i personaggi vivrebbero le loro vicende parallele, secondo questa edizione, parrebbe un albergo dall’aria molto veneziana e per nulla spagnola dove le vicende occasionali e gli equivoci avvengono con più naturalezza dei luoghi prescritti dal libretto, senza troppa attinenza alla verosimiglianza – se mai la regia avesse voluto ispirarsi ad essa – perché in fondo esibisce una dimensione mentale inconscia dove sono infrante le coordinate logico-temporali: la regia invece si discosta dal libretto e dalle sue didascalie sceniche proprio per scardinare l’assetto tradizionale dei ruoli sociali e dei rapporti tra i personaggi: l’ambiente settecentesco della scenografia passa per tradizionale, ma in realtà nessun elemento della tradizione viene rispettato dalla regia e tutto è trasfigurato, reinventato in chiave teatrale dove gli interpreti si muovono tanto, troppo, più come attori di prosa che come cantanti senza nessuna distinzione o riguardo per la loro immagine consolidata dalla storia musicale. A tanto arriva il potere registico che non esistono più differenze sociali tra i personaggi per i costumi di Carla Teti: Don Giovanni non ha spada al fianco e ammazza il Commendatore a bastonate; nessuna distinzione di rango tra le due donne che vestono allo stesso modo; un Leporello arbitrariamente balbuziente nei recitativi ma non nelle arie (chiaro indizio che per il regista l’opera va trattata come un canovaccio di prosa: il canto è qualcosa di accessorio – si interviene nella parte vocale con un arbitrio inaudito – che trascende la realtà scenica e non la riguarda); se coprirsi il viso con mezzo palmo di mano per la regia significa mascherarsi (terzetto delle maschere), è invece azzeccata l’idea dell’ammucchiata al buio con tutti i caratteri equivoci di una dark room nella fine del primo atto; un Don Giovanni che passa attraverso i muri e diventa il fantasma erotico ideale di tutte le donne del dramma, riottose all’amore scontato e banale di Masetti e Don Ottavi, ubiquitario in ogni momento come tutti gli altri personaggi assiepati nella stessa opprimente dimensione spaziale, si avvaleva dell’apparato scenografico di Paolo Fantin sorprendentemente dinamico e vorticosamente instabile con pannelli e pareti in continuo scorrimento. Virtuosistica anche dal punto di vista scenografico la scena ed aria di Donna Elvira In quai misfatti…Mi tradì quell’alma ingrata, la più dinamica e movimentata che io ricordi: applauditissima peraltro costituiva il clou della serata dove l’orgia finale con tanto di donnine discinte nella camera del burlador, finiva con l’apparizione (sempre in una dimensione psichica?!) del Commendatore – non della sua statua funebre, giacché l’invito era già inoltrato dal don alla salma nella bara durante la sua veglia funebre- e, con il tradizionale sprofondamento all’inferno del libertino. Fumogeni ma non fiamme. Strano a vedersi che certe regie impegnate a smontare meticolosamente tutto l’apparato didascalico del libretto, poi, dove più ci si aspetterebbe un lampo di genio creativo, si affidano pedissequamente a quello. Nulla da dire sulla compagnia di canto che aveva tutte le garanzie di eccellenza con il cast formato dal Don Giovanni di Alessandro Luongo, basse-baritone dall’ottima presenza atletica in senso fisico e vocale, dal Leporello di Omar Montanari, costretto a balbettare i recitativi per tutta l’opera e merita una medaglia al valore proprio per la perfetta dizione e la resa di un personaggio che la regia ha voluto dissociare il più possibile dal suo padrone – un Leporello non certo alter ego, ma esatto rovescio di Don Giovanni, la Donna Anna di Francesca Dotto dalla vocalità forse un po’troppo spinta per le agilità dell’impervia Non mi dir bell’idol mio, la versatile Donna Elvira di Carmela Remigio, che ha incarnato il fulcro drammatico e passionario di tutta la regia, anche lei atletica in senso fisico e vocale, il Don Ottavio del tenore Antonio Poli che ha esibito un colore brunito e uno spessore insolito per una parte vocale in genere assegnata a voci di sbiancata leggerezza, il Masetto di William Corrò, dal credibile profilo scenico e vocale, la Zerlina briosa, squillante e tanto goldoniana scenicamente di Giulia Semenzato, l’imponente sotto ogni punto di vista Commendatore del basso Attila Jun fornito di capacità ugulari notevoli, ma svilito come figura scenica da una regia che l’ha voluta poco nobile, poco misteriosa e tanto prosaica. Splendida direzione dell’Orchestra e Coro del Teatro La Fenice, quella del Direttore Stefano Montanari che ha valorizzato il carattere sinfonico della partitura mozartiana rendendo trasparente la funzionalità espressiva dei caratteri timbrici assegnati ai diversi momenti dell’opera in un insieme organico e unitario anche in senso ritmico e agogico cui ha preso parte in larga misura il Maestro del Coro Claudio Marino Moretti. Alla gran macchina dei movimenti scenici ed al loro successo ottenuto, hanno contribuito le luci di Fabio Barettin. Alla fine applausi per tutti.
Andrea Zepponi
Tutte le immagini della galleria fotografica sono di © Michele Crosera.
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