Tutto ebbe inizio dal ritrovamento di un’intervista che la Poetessa Alda Merini aveva concesso anni prima all’autore Tony di Corcia, nel corso della quale aveva parlato del suo sodalizio con il poeta tarantino Michele Pierri. Lo studio su entrambi e l’incontro con persone che avevano frequentato, con alcuni dei figli di Pierri e con Barbara Carniti la quarta figlia della Merini, ha fatto sì che il libro fosse portato a compimento. Maurizio Costanzo che spesso ospitava la Merini nel suo salotto, dove molti di noi hanno imparato a stimarla, con i suoi ricordi ha fatto sì che la ricerca dell’autore fosse portata a compimento. Il libro parte dal periodo in cui molti editori che in futuro se la sarebbero contesa, si rifiutavano di pubblicare i suoi versi. Fu Pierri ad aiutarla a tornare ai fasti che meritava. Maria Corti voce dell’Accademia salentina e Giacinto Spagnoletti pigmalione della Merini furono le uniche persone a starle vicino quando era soltanto “la pazza della porta accanto”. Uno degli episodi più straordinari del libro è quando il primo marito Ettore Carniti l’affida a Pierri affinché la sposi e le dia una vita dignitosa. Un gesto d’infinito amore, d’inarrivabile generosità, di autentica pietà. Carniti sapeva che alla sua morte Alda sarebbe rimasta sola ed in una condizione d’indigenza economica. Tra i due poeti la parola era il loro strumento per eccellenza. Dieci anni di manicomio furono un bagaglio pesante che la Merini riuscì a sopportare grazie alla sua forza interiore e grazie alla capacità di tradurre in versi la più cruda delle realtà. Pierri e la Merini erano molto diversi, fu la poesia a cancellare le loro differenze, le distanze e gli aspetti che sembravano inconciliabili. Di Corcia ci fa conoscere una Merini inedita, capace di prendere in contropiede l’interlocutore, di sorprendere e dotata di una grande forza interiore capace di farle ricordare l’esperienza del manicomio come “un’oasi di pace”.

Come nasce l’idea di scrivere un libro sulla Merini?

Venivo da quattro pubblicazioni, anche piuttosto fortunate, su protagonisti del mondo della moda come Versace, Valentino, Burberry, ma avvertivo un fortissimo desiderio di cambiare settore, linguaggio, e rivolgermi a nuovi lettori. Dopo una lunga e tormentata ricerca di una storia che mi permettesse questo cambiamento, ho trovato casualmente la fotocopia di un articolo che avevo firmato nel 2005 per il Corriere del Mezzogiorno, il dorso pugliese del Corriere della Sera: si trattava dell’intervista che la poetessa mi aveva concesso nella sua casa sui Navigli, e nel corso della quale mi aveva parlato del suo sodalizio con il poeta tarantino Michele Pierri. Ho immediatamente capito che non avrei potuto imbattermi in una vicenda più appassionante di quella, e ho cominciato a studiare le produzioni poetiche di Pierri e della Merini: ho riassaporato ciò che conoscevo della Merini, e scoperto la poesia altissima e meditata di Pierri fino a innamorarmene; contemporaneamente ho incontrato le persone che li hanno conosciuti e frequentati, tra questi alcuni amici e tre dei dieci figli di Michele Pierri – persone di impareggiabile garbo e gentilezza, degni figli di quell’uomo eccezionale che è stato Pierri. E poi ho conosciuto Barbara Carniti, la quarta figlia di Alda Merini: anche in questo caso, mi sono imbattuto in una persona decisamente speciale e dotata di una grazia interiore a dir poco rara. Infine, Maurizio Costanzo ha aggiunto con i suoi ricordi il tocco necessario a chiudere le mie ricerche – non a caso è lui a firmare le conclusioni. Il libro era pronto, ne ero davvero soddisfatto, e potevo contare su un editore giovane e appassionato come Michele Falco che ha voluto pubblicarlo credendoci senza riserve.

La Merini non fu ammessa al Liceo Manzoni perché respinta all’esame di italiano. Decise di scrivere poesie per una sorta di rivincita o cosa?

Alda Merini era una donna dotata di una incrollabile fiducia in sé stessa, la stessa che le ha permesso di superare le esperienze raccapriccianti del manicomio e gliele ha fatte trasformare in una poesia altissima ed emozionante. Ma la storia è piena di casi clamorosi di personaggi che, a scuola, non eccellevano nella disciplina che li avrebbe visti primeggiare da adulti. La Merini si è vista sbattere parecchie porte in faccia, penso a quando gli stessi editori che un giorno si sarebbero contesi i suoi versi si rifiutavano di pubblicarla: ho voluto iniziare il mio libro proprio da quel periodo, per dimostrare in quale condizione di solitudine e difficoltà Pierri l’abbia raccolta e quanto l’abbia aiutata a tornare ai fasti letterari che meritava.

copertina Merini

copertina del libro “Alda Merini e Michele Pierri. Un amore tra poeti”, Falco Editore, 2015

Secondo la Corti voce dell’Accademia salentina, l’origine del processo metaforico del linguaggio di Alda risiedeva nella sua schizofrenia. Cosa ne pensi?

Non potrei non essere d’accordo con un’intelligenza acuta come quella di Maria Corti, che fece questa analisi su un numero della rivista “Il cavallo di Troia” del 1982. Si tratta di una delle tante recensioni che la Corti in quegli anni faceva per riaccendere l’attenzione del mondo editoriale sulla poesia di Alda Merini: in quel periodo, sembrava condannata all’oblio più totale nonostante gli esordi felici salutati con entusiasmo da Montale, Pasolini, Manganelli. Credo che Maria Corti, Michele Pierri e Giacinto Spagnoletti siano stati i suoi estimatori più sinceri e appassionati, perché hanno amato la sua poesia moltissimi anni prima che lei diventasse un personaggio televisivo, popolare, corteggiato da musicisti e artisti. Le sono stati vicini quando era soltanto, per citare uno dei suoi titoli, “la pazza della porta accanto”.

È addirittura il primo marito Ettore Carniti che l’affida a Michele Pierri. Perché?

Un gesto di infinito amore, di inarrivabile generosità, di autentica pietà. Carniti sapeva che, dopo la sua morte, Alda Merini sarebbe rimasta sola e in una condizione di indigenza economica. La poetessa gli aveva parlato di questo amico lontano, che sentiva soltanto al telefono, e più volte glielo aveva passato perché fornisse un parere – da chirurgo valentissimo qual era stato – sulle terapie che stava seguendo. Deve aver intuito che quell’amicizia poteva trasformarsi in qualcosa di più profondo, e quindi lo ha pregato di prendersi cura di sua moglie, di sposarla, di assicurarle una vita dignitosa. Uno degli episodi più straordinari contenuti nel libro, e a parlarmene fu proprio la Merini: ricordo ancora quanto mi emozionò il racconto di quel momento.

La Merini fece perdere a Pierri la ritrosia nel parlare. Quanto era importante per loro il comunicare?

Fondamentale, erano due poeti: la parola era il loro strumento per eccellenza. Avevano, però, due modi totalmente diversi di comunicare e di poetare: Pierri era più silenzioso, concentrato, essenziale, ermetico, mentre la Merini era ariosa, musicale, e parlava tantissimo, anche ore intere! Però questa sua loquacità lo ha riscaldato, e gli ha permesso di aprirsi alla poetessa confidandole il dolore per la perdita della moglie, Aminta, una donna straordinaria e dotata di una intelligenza e di una personalità difficili da dimenticare.

All’inizio fu un fidanzamento telefonico. Furono antesignani dei social?

Come scrivo nel libro, la Merini usava Skype prima che inventassero Skype. La sera, il loro appuntamento telefonico si concludeva spesso con la musica che lei suonava al piano per Pierri: poggiava il telefono sul calorifero, e fino all’una di notte gli dedicava le pagine musicali che amava di più. Ciò che oggi faremmo grazie alla webcam e a Skype, lei lo praticava con il pesantissimo telefono della Sip, quello con la rotella trasparente, che richiedeva lunghi secondi per comporre un numero. Mi è piaciuto raccontare, oggi, queste modalità di comunicazione: io le ho vissute, e credo che siano inimmaginabili nel tempo degli smartphone e dei social network. Quelle chiamate interurbane possedevano qualcosa di romantico e sofferto, si affrontava quella spesa pur di sentire un familiare o un fidanzato lontani, l’amore e l’affetto potevano contare soltanto sulla linea telefonica per restare saldi e non sfiorire. Altri tempi.

Dieci anni di manicomio, un bagaglio pesante. Come riuscì a sopportarlo?

Me lo chiedo anch’io. Posso soltanto immaginare quali orrori la Merini abbia dovuto sopportare in quegli anni, e il solo pensiero mi terrorizza. Eppure, quando ricordava quell’esperienza, la rimpiangeva come “un’oasi di pace”: era una donna capace di prendere in contropiede l’interlocutore, e anche questo modo così soave di ricordare l’ospedale psichiatrico rientra in questa sua capacità di sorprendere, l’imprevedibilità era un suo talento, un suo pregio. Credo che abbia resistito grazie alla sua forza interiore, e grazie a quella capacità di tradurre anche la più cruda delle realtà in poesia che l’ha sempre accompagnata nella vita. Quanti avrebbero saputo trasformare il manicomio nella cifra stilistica più riconoscibile della propria arte? Pochi, e solo se straordinari: la Merini apparteneva certamente a questa categoria.

Due persone diversissime eppure simili. Un uomo del Sud ed una donna del Nord, uniti più dall’amore che dalla poesia o viceversa?

Dall’amore, dalla poesia e, aggiungerei, dall’amore per la poesia. La poesia è un brutto contagio, come ripeteva spesso la Merini, e in quella comune “malattia” i due poeti si sono riconosciuti, si sono sentiti uniti, compresi. La poesia è stata il motivo per cui Giacinto Spagnoletti, pigmalione della poetessa e amico di entrambi, li mise in contatto: per permettere alla Merini di tornare a pubblicare dopo il lungo silenzio editoriale dovuto all’internamento. La poesia ha cancellato le loro differenze, le distanze, gli aspetti che potevano sembrare inconciliabili.

Tony di Corcia

Tony di Corcia

“Al lettore ricordo che capita a volte che la persona che scrive è molto diversa dalla persona che sono”. Ti ritrovi in questa affermazione?

Soprattutto in Italia abbiamo la tendenza a confondere il personaggio dello scrittore, così come lo vediamo in televisione o sui giornali, e la sua scrittura: in alcuni casi le due dimensioni, privata e letteraria, collimano perfettamente; in altri, invece, confondere i due piani mi sembra deleterio e porta a non apprezzare pienamente la produzione di qualche autore. Quanto a me, ho scritto finora soltanto biografie: mi è andata bene, perché racconto le vite degli altri! Credo che questo tipo di confusione sia più frequente con chi scrive romanzi. Venendo dal giornalismo, cerco di mettere la mia scrittura completamente a servizio del personaggio e della vicenda che sto raccontando ma senza dimenticare le mie opinioni, i miei punti di vista, i miei orientamenti: dunque, se mi capita di rileggere qualcosa di mio riesco a riconoscere la mia voce nelle storie di un’altra persona, e questo mi rende particolarmente felice.

Elisabetta Ruffolo