Ocean Terminal di Piergiorgio Welby dal 12 al 17 giugno al Teatro Libero di Milano. A dare voce a Welby è l’attore Emanuele Vezzoli che ha pensato di traghettare il pubblico all’interno della vicenda con un ponte che la collega all’oggi. Usa il suo corpo di attore per portare il pensiero di Welby agli uomini e ci è riuscito perfettamente.
Abbiamo intervistato Emanuele Vezzoli per TheMartian.eu.
Com’è nata l’idea di rappresentare a Teatro la storia di Piergiorgio Welby?
Il professore Giorgio Taffon stava recensendo il libro, edito da Castelvecchi, da cui è tratto lo spettacolo e mi ha chiamato per dirmi che c’era del materiale adatto al palcoscenico. L’abbiamo visto insieme a Francesco Lioce (nipote di Welby) ed abbiamo cominciato il lavoro di riadattamento dal romanzo allo spettacolo teatrale. È un flusso di coscienza, ricorda Joyce, è narrato in prima persona ed è molto poetico, scritto molto bene, ha un linguaggio musicale, sembra quasi scritto in versi. Mi ha affascinato sin da subito.
Il linguaggio è quello delle tragedie greche. Perché?
Welby era un grande studioso sia di letteratura che di filosofia, conosceva molto bene il teatro greco e questo narratore ipotetico, assomiglia molto ad un personaggio della tragedia greca, assume un atteggiamento di fronte al mondo che è simile a quello che sfodera dinanzi alla Camera del Teatro greco ed usa un linguaggio preciso, scelto, potente che non lascia nulla al quotidiano, ed è per questo che somiglia ai monologhi dei personaggi della tragedia greca. Essendo la vicenda stessa una tragedia, assume anche il peso teatrale di una tragedia greca.
All’inizio c’è un narratore che poi si trasforma in un superstite.
È un espediente che ho adottato leggendo il romanzo curato da Francesco Lioce su richiesta di Piergiorgio, una volta che lui fosse morto. Francesco nella prefazione mette un suo pensiero nella quale spiega il rapporto con Piergiorgio Welby post scriptum. Ho intravisto la possibilità di traghettare il pubblico all’interno della vicenda, con un ponte che la collega all’oggi. Un gancio che la mantiene attuale.
Welby diceva “Il mio corpo rappresenta un abito sgualcito”.
Lui ha sempre avuto consapevolezza della sua malattia in giovane età ed ha tracciato un diario, giorno dopo giorno dei cambiamenti del proprio corpo e come di conseguenza cambiava la vita. È un po’ come il romanzo di Pennac Storia di un corpo in cui narra il punto di vista del corpo che invecchia e quindi le sensazioni che prova con le differenti età. Piergiorgio era proprio così, lui ha vissuto la vita in modo differente utilizzando ciò che il corpo gli lasciava. La sua attività era quella di scrivere e dipingere, quando non ha più potuto usare le mani e si faceva aiutare da Mina, sua moglie, in seguito ha cominciato ad utilizzare il computer ed ha iniziato un arte grafica di pittura con il PC scrivendo o con “la cannuccia” che si tiene in bocca oppure con la mobilità delle pupille (cd. Puntatori oculari). A Capena è stata fatta una mostra delle opere di Welby che si chiamava Irriducibilmente. All’interno della mostra abbiamo fatto anche Ocean Terminal. Le ultime opere erano state fatte col PC. Lì è il segno di cosa intendesse lui con il termine abito sgualcito, la funzione è sempre quella ma cambia l’aspetto, il modo di portarlo. Il suo corpo l’ha usato fino all’ultimo istante. Dei racconti testimoniano che sceglieva delle traiettorie da percorrere quando ancora poteva camminare per evitare dislivelli, marciapiedi e difficoltà varie ma anche per evitare lo sguardo di alcune persone o che venisse commentato il suo modo di muoversi. Aveva una percezione molto cosciente di quella che era la trasformazione che stava subendo, infatti ricorreva molto frequente la parola metamorfosi o sgabuzzino di ragni che tessono in silenzio il sudario, oppure bozzolo entro il quale avviene la mutazione della farfalla. Il suo corpo era un abito sgualcito perché andava sempre più sgualcendosi.

Foto di scena tratta da Ocean Terminal, di Piergiorgio Welby. L’attore protagonista Emanuele Vezzoli.
Spesso si chiedeva se fosse un superstite. Perché?
Provo a rispondere per istinto perché è molto difficile sapere cosa lui effettivamente intendesse. Lui teneva un diario su internet. Il luogo deputato per questo incontro virtuale con le altre persone era una zattera. Si riteneva superstite come lo può essere Robinson Crusoe su un’isola deserta, uno scampato ad un naufragio, un sopravvissuto ad una “prima morte”. Aveva fatto un patto con Mina, qualora avesse avuto bisogno di un respiratore artificiale, non avrebbe dovuto dare il permesso ai medici. Quando è successo la prima volta, era di notte e Mina chiamò l’ambulanza. Piergiorgio dice «Quella sera l’ambulanza non trovò neanche un semaforo rosso» e quindi arrivò in tempo all’ospedale per mettergli il respiratore. Quello fu il suo essere superstite per la prima volta. Da lì è cominciata la sua vita da persona bloccata in una stanza. Ha vissuto altri dieci anni attaccato alle macchine. L’ha vissuta a lungo e profondamente la vita.
Si sentiva un “condannato a vita in cui forte era il conflitto tra l’abbandono della speranza e l’inno alla vita”. Tutti gli incidenti che gli capitavano, trovavano una soluzione e si aggrappava anche a quella flebile speranza.
Inno alla vita è la parola giusta perché ha continuato ad amarla e a viverla intensamente anche quando era sulla sedia a rotelle. Lo portavano a pescare, aveva tante amicizie, ha avuto un amore passionale per altre donne, ha avuto degli amori platonici, degli amori immaginari. Nel testo che metto in scena, ci sono queste fantasie che si riferiscono anche a fidanzate che ha avuto nella vita e sono parole veramente forti e piene di passione. Era molto attaccato alla vita e si evince anche su come descrive il rapporto con la natura alla quale ha dedicato molto anche con la fotografia che era un’altra delle sue grandi passioni.
Una forte influenza cattolica che non gli ha impedito di portare avanti una lunga battaglia in favore di una morte dignitosa. È stato anche questo a farlo continuare ad andare avanti?
La battaglia che ha fatto è stata una sua scelta politica insieme ai compagni di partito. Per quanto riguarda la sua malattia, non aveva bisogno di chiedere l’eutanasia perché il diritto di interrompere l’accanimento terapeutico, c’era già da molto tempo. Si è fatto tramite per la battaglia sulla “Buona Morte”. Ogni caso va valutato a sé, non si può generalizzare. Non si può continuare a vivere in una società in cui non c’è regolamentazione, ecco perché la richiesta di una Legge. La richiesta di una morte dignitosa va di pari passo con la natura umana. Quando una persona sente che la vita non è più tale, perché ha atroci sofferenze o altro, deve avere il diritto di difendere la propria dignità che esiste sia quando la persona è sana che quando è malata. Quando si arriva ad un punto cruciale, si deve guardare alla dignità del paziente e non solo a quella dei medici. Vanno messe sullo stesso piano della bilancia e le cose vanno valutate.
Hai detto che Welby è stato il tramite per la battaglia sulla “Buona Morte”, allo stesso modo tu sei il tramite per portare il suo pensiero agli uomini. Ci riesci sempre?
Sì perché lui trasferisce nelle parole tanto di quella vita che il suo corpo non avrebbe mai potuto esprimere. Portarlo in teatro per me significa prestare il mio corpo alle sue parole, fantasie, idee. In teatro si vede un corpo che parla per voce di Piergiorgio Welby. Quello che succede tutte le sere e che mi commuove sempre è che non mi sento solo in palcoscenico ma sento di essere insieme a lui. Entro nelle vesti del nipote di Piergiorgio Welby come narratore e poi mi trasferisco nel corpo di Welby prendendolo in prestito e racconto attraverso le sue parole, questa meravigliosa galoppata nei ricordi. Quando alla fine ne esco fuori, mi accorgo che lì con me, sul tavolo, c’è Piergiorgio Welby. Alla fine dello spettacolo, vado tra il pubblico e applaudo insieme al pubblico, Piergiorgio Welby. Si ha la sensazione che ci sia in palcoscenico.
È stata la stessa Mina Welby a dire che con il tuo corpo di attore sai parlare ai cuori della platea. Riassumendo benissimo ciò che hai detto fino adesso.
Sì perché mi sono lasciato trascinare lentamente in questo lavoro dalle parole di Piergiorgio. Ci ho messo così tanto tempo, usando tatto e delicatezza che mi sono penetrate per osmosi e sonno diventate mie. È veramente bello subire in parte questa trasformazione sul palcoscenico. Mi lascia svuotato, perdo un sacco di energia, è una sorta di transfert che faccio con Piergiorgio Welby.
Elisabetta Ruffolo