«Saturi della frenesia e degli agi della società in cui viviamo, saremmo davvero in grado, oggi, di ascoltare la chiamata di Cristo e di cogliere il suo invito a seguirlo, rinunciando a tutto?». Interrogativo importante, quanto mai attuale, questo che Leonardo Regano rivolge al pubblico della grande mostra Sequela, da lui curata nell’Ex Chiesa di San Mattia a Bologna.
Partendo dal titolo, che riprende quello di un testo del 1937 del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, l’intero percorso è l’occasione per una riflessione sul senso del sacro nella vita contemporanea e su come il rapporto con la spiritualità venga oggi vissuto e raccontato dalle arti visive. La sequela di cui si parla nei Vangeli è intesa come la chiamata al seguito di Cristo, ma pur nascendo dai Vangeli non è poi un valore esclusivamente cattolico. E dove affrontare se non in una ex chiesa un’analisi sulle diverse rappresentazioni non dogmatiche della religiosità?

Sequela, Installation View. Ph. Claudia Trianni.
Il pensiero di Bonhoeffer è il nucleo di partenza nella misura in cui l’approccio alla religione è volutamente meno categorico e più aderente alla rivelazione biblica, intimo e personalizzato, non mediato e dunque non condizionato dal dettame ecclesiastico.
Ebbene Regano, interrogandosi sui confini contemporanei del credo, ci guida con l’eleganza che appartiene ai pensieri ben espressi, nella ricerca di una possibile risposta, filtrata dalle espressioni dei sedici artisti di questa ricchissima collettiva: «L’individuo è libero di disegnare su se stesso il proprio sentire spirituale, di modellare in base alle proprie esigenze le sue credenze e i suoi rituali. Spiritualità e religione sono quindi concetti che oggi convivono assieme ma non coincidono».
Una “sequela” la sua, che può essere interpretata come la chiamata al seguito dell’Arte, laddove a concertare sono tre generazioni d’artisti con linguaggi molto diversi – con opere datate dal 1960 al 2017, alcune site specific per lo spazio – che evocano cosa per ognuno significhi “spiritualità”.
Promossa dal Polo Museale dell’Emilia Romagna e dalla Nuova Galleria Morone di Milano, la mostra ha attirato l’attenzione anche per la presenza di nomi importanti: Elizabeth Aro, Davide Benati, Mariella Bettineschi, Letizia Cariello, Maria Cristina Carlini, Daniela Comani, Giulia Dall’Olio, Francesco Diluca, Domenico Grenci, Gencay Kasapçi, Julia Krahn, Maria Lai, Maurizio Osti, Elisabeth Scherffig, Fausta Squatriti e Bill Viola.

Julia Krahn, Muttuer auf der Flucht, 2017. Ph. Claudia Trianni.
Si potrebbe azzardare che le opere presentate, nel meticoloso allestimento proposto, abbiano lasciato che si manifestasse la quintessenza, sarebbe a dire quell’elemento puramente immateriale dello spirito del mondo. Proprio in quanto i quattro elementi acqua-fuoco-terra-aria, sono apparsi molto ben evidenti. Così come i rimandi alla ritualità catartica e naturalmente i riferimenti simbolici. Si è creato un dialogo serratissimo e affascinante tra i dettagli estetici e concettuali dei lavori, esplorati tenendo conto dell’intimità che può crearsi nel contatto con lo spirito, qualsivoglia sia la sua manifestazione.
A partire dalla reverenza che suscita l’architettura sacra, della chiesa che fu di San Mattia oggi tempio dell’arte, l’interesse si è allargato agli aspetti che accomunano «fedeli di differenti credi, atei e non credenti», descrivendo parallelamente tanto il rapporto del XXI secolo con l’iconografia sacra, quanto quello con la natura, sviscerando i limiti dell’uomo fino a descrivere l’incredulità della fede quando questi si scontra con problemi atroci quali l’immigrazione e l’olocausto.
Di certo non è facile restituire l’immagine d’insieme di una mostra a chi non l’ha visitata, ma sicuramente resta un buono esercizio per condividere la conoscenza di episodi significativi dell’arte. Come l’occasione di sfogliare i tre grandi libri d’artista Genesi, Esodo e Apocalisse del 1972, che compongono Cantica di Maurizio Osti, esposti al pubblico per la seconda volta in più di quarant’anni, o di trovarsi di fronte al cielo stellato di Gencay Kasapçi del 1960. O ancora di attraversare la struttura labirinto a forma di croce velata da organza di seta ricamata da Elisabeth Scherffig, e da qui passare con immediatezza di sguardo ai ricami, a filo e a penna, di Letizia Cariello fino al suo Polittico – Bambino, e al broccato rosso di Elizabeth Aro che scorre come una cascata di tessuto sanguinolento di fianco alla cascata d’acqua purificatrice che investe e “battezza” i protagonisti anonimi del dittico video di Bill Viola.

Letizia Cariello, Polittico Bambino, detail, 2015. Ph. Claudia Trianni.
Ed è il corpo a farsi centrale in parte dell’esposizione: quello svuotato della carne e delle viscere che tende all’incontro col divino nella scultura di Francesco Diluca, quello ammiccante e fragile nelle pitture di Domenico Grenci che attualizza una vanitas medioevale e con una ingegnosa lente che punta a uno dei quadri lascia intravedere un teschio al posto del viso della donna ritratta!
In questo passaggio all’elemento terreno e mortale ci vengono incontro il piccolo prezioso ex voto d’ispirazione mariana e la grande installazione in forma di pala d’altare di Julia Krahn intitolate insieme Mutter auf der flucht, la Madre dei flutti che concedono un effetto di poetico spaesamento: in entrambe salta all’occhio l’utilizzo dell’oro, richiamo palese allo scintillio degli arredi sacri, che però qui è quello delle “gelide” coperte termiche dorate con le quali vediamo avvolti i migranti appena sbarcati. Forte la spinta alla verticalità delle forme, che sembra descrivere l’aspirazione verso il mistico: la si avverte anche nella tensione delle lunghe sculture-antenne di Maria Cristina Carlini sin dal cumulo di terra che ne è la base, viva e ordinatamente installata sull’altare maggiore, che riconduce idealmente alla spiga di grano del quadro di Maria Lai. E in questo solco, che racconta il legame atavico e imprescindibile con la natura e il paesaggio, si inseriscono i lavori pittorici di Giulia Dall’Olio che sospende nel tempo un imponente e bellissimo albero divino, e Davide Benati, che nel suo acquerello su carta rappresenta delle foglie di un ginkgo facendole risplendere di luce tanto da sembrare un coro di angeli. E a proposito di carta e di candore, in mostra anche un’incisione di Mariella Bettineschi del 1984.

Fausta Squatriti, Via Crucis, IX stazione, Gesù inchiodato alla croce, 1992.
Appare doveroso prendere in conto uno dei riferimenti testuali forniti dal curatore per concludere questa passeggiata: Regano infatti cita Luigi Berzano e la sua teorizzazione della designer spirituality, da intendersi come comportamento per cui anche la spiritualità diventa un bisogno da adattare alle proprie esigenze. Appaiono eloquenti in questo senso le opere di Fausta Squatriti della metà degli anni ’90 e di Daniela Comani: l’uno un dittico fotografico in cui dei chiodi arrugginiti e un tulipano appassito, evidenti rinvii alla passione di Cristo, si confrontano con la perfezione asettica del quadrato, come un pixel elevato a simbolo di perfezione e sintesi che ripetuto costruisce la forma della croce; e l’altra, appunto una Croce Ipertestuale che ci accompagna all’uscita. Si costruisce dall’intreccio grafico di centinaia di indirizzi internet, rimandano alla vacuità spirituale di una società contemporanea ormai abituata a ricondurre ogni esperienza della vita ad un click, oltre qualsiasi fervore religioso.
Cristina Principale
L’immagine di copertina si riferisce all’opera di Maria Cristina Carlini, Khmer, 2016. Ph. Claudia Trianni.