Mancano soltanto due giorni al referendum. Un appuntamento importante. Dopo settanta anni gli italiani hanno la possibilità di scegliere se modificare la Costituzione oppure confermare quella scritta dai Padri Costituenti. Un evento che avrebbe meritato un ben altro livello di confronto rispetto a quello in atto sia tra le forze politiche sia tra i cittadini.

Per molto tempo, sin da quando la riforma costituzionale che dovremo giudicare ha avuto la doppia approvazione da entrambe le Camere, il dibattito si è cristallizzato sulla figura dell’attuale Presidente del Consiglio. La responsabilità di questa polarizzazione ricade sia su Matteo Renzi, il quale per primo l’ha avviata – salvo poi recriminare mesi dopo per aver invocato una scelta sulla sua persona –, sia sulle opposizioni, che non riuscendo a detronizzare l’attuale capo del governo hanno puntato sul NO al referendum per dare una spallata all’esecutivo.

Purtroppo i tentativi, pochi e blandi, fatti da politici, giornalisti e costituzionalisti per riportare la discussione sui binari del merito hanno sortito effetti deludenti.

Quasi in ogni dibattito l’appello del commentatore di turno, “vorrei discutere del merito della riforma”, sembra aver sostituito il vecchio e ormai sorpassato incipit di ogni comizio politico: “sarò breve!”: nel volgere di poche battute l’attenzione si sposta sulla figura del Presidente del Consiglio, duce o statista illuminato a seconda dei casi oppure sulla composizione degli esponenti di spicco del fronte del NO, dipinti come vecchie glorie alla ricerca di una rivalsa o al contrario come eroici garanti di una idea di costituzione non emendabile.

Nei discorsi dell’uomo della strada, o nei post pubblicati sui media, le cose non vanno meglio, anzi. Se per molte settimane aveva prevalso il rilancio dei principali slogan della fazione di appartenenza, negli ultimi tempi all’appello manicheo si accompagna troppo spesso l’insulto al fronte opposto, definito come costituito da paggetti ossequiosi del duce di Palazzo Chigi o al contrario di irriducibili nostalgici di un mondo ormai superato e ostili al “nuovo che avanza”.

Nessun dubbio di essere dalla parte giusta – e questo di per sé non sarebbe un aspetto negativo – ma quello che purtroppo manca è la motivazione della decisione, o almeno la motivazione legata al merito della riforma.

Diviene così uno scontro tra chi vota SI per “costruire un futuro migliore per i nostri figli”, senza spiegare come questo miglioramento sarebbe collegato al testo costituzionale proposto, e chi vota NO per arginare la “deriva autoritaria”, senza riuscire a indicare quali nuovi articoli predispongono il temuto slittamento.

Nessun accenno al contenuto degli articoli, nessun tentativo di confronto tra il vecchio articolo 117 (quello sulla competenza legislativa) e il nuovo; nessun dubbio sulla necessità di passare da un sistema bicamerale ad un sistema a “una camera e mezza”, motivato dalla volontà di rimuovere il bicameralismo paritario, che magari poteva essere ovviato differenziando le funzioni tra le due camere; nessun dubbio sulla coerenza della scelta per il nuovo parlamento, dove se la riforma venisse confermata sarebbe sufficiente, per dichiarare guerra (art. 78), una maggioranza meno qualificata di quella necessaria per decidere amnistia e indulto (art. 79).

A completare il quadro, e al tempo stesso uscire definitivamente dal merito della riforma, vale la pena sottolineare un’altra faglia apertasi nell’elettorato, tra quelli che voteranno SI soltanto per evitare i temuti effetti destabilizzanti sul governo Renzi e altri che voteranno NO animati principalmente o esclusivamente dalla speranza di mandare a casa l’attuale Presidente del Consiglio.

Uno scontro guelfi-ghibellini globale e multidimensionale, dove l’unica dimensione assente sembra quella principale: la riforma della nostra Costituzione.

Giovanni Ciprotti