Nonostante i sondaggi contrari e che per la prima volta nella storia degli Stati Uniti il 55-60% degli americani dichiarava di avere sentimenti negativi verso entrambi i candidati, Donald Trump ha vinto. Dal libro emerge che il fenomeno incarnato da Trump non fosse passeggero né superficiale e rappresentasse uno dei volti in cui il malessere e le contraddizioni della società americana si andava esprimendo. Il libro ha due traiettorie: dopo l’elezione di Barack Obama in tutto l’Occidente avevamo salutato la cosiddetta era post razziale anche se così non è stato. Un afroamericano alla Casa Bianca non ha mutato la società americana e il tema del razzismo poiché l’America deve ancora fare i conti con questo elemento “fondativo”; esamina approfonditamente la drammatica crisi sociale: 50 milioni di abitanti che vivono sotto la soglia di povertà, un numero crescente di persone che vengono emarginate, venti milioni di persone che dopo la crisi tra il 2008 ed il 2009 hanno perso la casa e vivono nei camper, nelle roulotte. Una grande crisi del ceto medio che ha subito una sorta di declassamento progressivo con il blocco dei salari che ha favorito i livelli apicali delle grandi aziende e c’è anche una rinnovata questione identitaria che è stata posta proprio dall’elezione di Obama che non ha messo un punto definitivo alla questione del razzismo. All’inizio del suo mandato nacque il movimento del Tea Party che ha riempito le piazze americane, ha mobilitato la rete e i social network, in una campagna dalle tinte sempre più esplicitamente razziste fino ad irrompere nel Partito Repubblicano conquistato da Trump. Obama, negli otto anni della sua presidenza non ha mai detto esplicitamente che negli Stati Uniti, il razzismo esiste ancora. È tornato a dirlo timidamente dopo lo stillicidio di giovani neri uccisi dalle forze dell’ordine e lo ha detto a Selma, celebrando l’anniversario della famosa marcia di Martin Luther King dicendo «Quella marcia non è finita, bisogna proseguire e continuare il lavoro». A distanza di anni dall’approvazione della legge sui diritti civili, le identità separate rappresentano ancora la quotidianità. Sembra che negli ultimi anni il fenomeno dei matrimoni misti stia tornando indietro. È la stessa società americana che sta tornando indietro. In Quinto Potere, Howard Beale celebre “commentatore televisivo” di Los Angeles dice «Voglio che andiate alla finestra e gridiate sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più». Potrà mai accadere una cosa del genere? Ci auguriamo di sì prima che lo slogan elettorale di Trump Costruiamo il Muro diventi una triste realtà.
Si intitola WASP L’America razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump il nuovo libro di Guido Caldiron, edito da Fandango Libri. Giornalista e scrittore, da anni si occupa di studiare le nuove destre e i fenomeni sociali contemporanei.
Quando ha scritto il libro aveva previsto che vincesse Trump?
No, non avevo ovviamente previsto perché sostanzialmente era impossibile prevedere fino in fondo la vittoria dati tutti i sondaggi contrari. Quello che però credo emerga dal libro è che il fenomeno incarnato da Donald Trump non fosse un fenomeno passeggero né superficiale e rappresentasse in qualche modo uno dei volti in cui il malessere e le contraddizioni della società americana si andavano esprimendo. L’idea del libro era che se anche Trump fosse stato sconfitto, il così detto “Trumpismo”, il fenomeno dell’incarnato avrebbe continuato a pesare sulla realtà americana. Le mie previsioni erano ottimiste invece, Trump ce l’ha fatta a vincere e non soltanto il peso di questa figura e del portato politico delle cose che rappresenta, peserà a lungo ma avrà anche la direzione degli Stati Uniti d’America.
WASP. L’America razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump. Sarà veramente così? Lo scenario è abbastanza inquietante.
Come sempre i sottotitoli nei prodotti editoriali in genere vengono inseriti dagli editori per meglio chiarire la gamma dei contenuti. In realtà il libro ragiona sostanzialmente su due traiettorie: da un lato quello di affermare qualcosa che ha ancora un rilievo nella società americana e che malgrado dopo l’elezione di Obama abbiamo salutato in tutto l’Occidente la così detta era post razziale, in realtà ci siamo illusi perché nonostante l’arrivo di un afroamericano alla Casa Bianca, non ha mutato nel profondo la società americana e il tema del razzismo, dei rapporti tra le comunità e sostanzialmente la difficile condizione di subordinazione in cui vivono in particolare gli afroamericani, gli ispanici, altri immigranti più recenti come i latinos, gli asiatici ed altri, dimostrano che in qualche modo l’America deve ancora fare i conti con questo elemento che appartiene in qualche modo alla natura del Paese, un elemento fondativo degli Stati Uniti, paradossale perché noi celebriamo come la terra del melting pot nata, cresciuta e sviluppata e se è arrivata ad essere quella che è oggi anche grazie ai continui flussi migratori. Eppure lo schiavismo, la schiavitù da una parte e i movimenti nativisti che si sono opposti costantemente nell’arco di duecento anni all’arrivo di nuovi cittadini, coloro che poi sarebbero diventati cittadini statunitensi, dimostrano che non c’è soltanto il melting pot. Da un lato il libro racconta il permanere della questione razziale analizzandone lo sviluppo attraverso la storia del Paese, dai Padri Pellegrini fino ad oggi. L’altro elemento descrive invece cosa è accaduto negli ultimi anni perché il fenomeno Trump è il portato, il prodotto di alcune vicende importanti. Da un lato l’idea spesso sottovalutata che negli Stati Uniti si sta vivendo una drammatica crisi sociale. Ci sono circa cinquanta milioni di abitanti sotto la soglia di povertà, c’è un numero crescente di persone che vengono emarginate; ci sono venti milioni di persone che vivono nei camper, nelle roulotte perché hanno perso la casa dopo la crisi tra il 2008 ed il 2009, c’è una grande questione sociale, una grande questione di crisi del ceto medio che ha subito una sorta di declassamento progressivo con il blocco dei salari che hanno invece favorito i livelli apicali delle grandi aziende e c’è contemporaneamente una rinnovata questione identitaria che in modo paradossale rispetto a quello che dicevo prima, è stata posta invece proprio dall’elezione di Obama che non solo non ha messo un punto definitivo alla questione del razzismo negli Stati Uniti ma nei confronti del primo Presidente afroamericano si è scatenata una campagna che ha avuto per molti aspetti delle connotazioni esplicitamente razziste nell’arco di due mandati, del quasi decennio della sua Presidenza. Il risveglio di fenomeni se non comparabili ovviamente al Ku Klux Klan, con il suprematismo dei bianchi di un tempo che hanno attraversato in maniera prepotente il dibattito pubblico della società americana trasformandosi ovviamente, non è un caso che uno degli slogan della campagna elettorale di Trump sia stato Costruiamo il Muro che è stato una specie di mantra urlato dai suoi sostenitori nei comizi e che aldilà della possibilità o meno che il muro venga costruito, già il fatto di aver liberato nello spazio pubblico quella parola, c’è una sorta d’istigazione esplicita alla xenofobia accompagnata dall’idea annunciata da Trump fin dalla sua discesa in campo nell’estate dell’anno scorso che molti dei messicani che arrivavano negli Stati Uniti siano stupratori, criminali. C’è in qualche modo un clima che è tornato a sedimentarsi intorno alle nozioni dell’appartenenza identitaria, della razza, di cui Trump ha beneficiato. La crisi sociale a cui ha dato voce parlando della ricostruzione di una grandezza dell’America e del riproporsi della questione razziale.
Perché gli otto anni di Barack Obama non sono stati in grado di guarire in profondità le ferite del razzismo?
In realtà Obama è stato molto timido su questo punto. Qual è stata la questione che si è posta in qualche modo Obama? È da un lato, l’idea di essere arrivato in quel luogo rappresentasse di per se stesso, il superamento di alcune barriere. La più alta carica del Paese occupata da un afroamericano e contemporaneamente proprio per questo Obama si è sentito però fin dall’inizio, oggetto di un’attenzione molto particolare, di attacchi molto forti da parte della destra, il Partito Repubblicano ricordiamo che all’inizio del mandato di Obama, è nato quel movimento del Tea Party che ha riempito le piazze americane, ha mobilitato la rete, i social network, in una campagna dalle tinte sempre più esplicitamente razziste fino ad irrompere nel Partito Repubblicano, quello conquistato da Trump è stato già lavorato su tematiche analoghe dal Tea Party e quindi Obama ha avuto paura di essere considerato non solo un Presidente afroamericano ma il Presidente degli afroamericani e quindi ha adottato una sorta di strategia di normalizzazione che passa per esempio, di non aver mai nominato il razzismo. Negli otto anni del suo mandato, lui non ha mai detto esplicitamente che questo problema continua ad esistere negli Stati Uniti. È tornato timidamente a dirlo in qualche modo negli ultimi anni dopo lo stillicidio di giovani neri uccisi dalle Forze dell’Ordine e lo ha detto a Selma celebrando l’anniversario della famosa marcia di Martin Luther King, dicendo «Quella marcia non è finita, bisogna proseguire e continuare il lavoro», ma eravamo già agli sgoccioli della sua amministrazione. In qualche modo Obama ha salutato l’idea che la sua elezione potesse davvero rappresentare gli inizi di un’età post razziale e questo semplice fatto ha in qualche modo cancellato queste nozioni dal dibattito pubblico. Gli intellettuali americani lamentano ora che in questi anni si è smesso di parlare esplicitamente di discriminazioni. Penso al lavoro, agli studi, alla salute, rispetto alle comunità più disagiate come gli afroamericani, gli ispanici, proprio perché tutto questo era stato bandito dal confronto. Un Presidente nero era la fine delle discriminazioni razziali eppure come ci siamo accorti le discriminazioni sono cambiate, non ci sono più, non c’è più bisogno dei cappucci del Ku Klux Klan che tra l’altro sono tornati in maniera marginale e folkloristica ma il razzismo ordinario, quello sociale che oggi colpisce a fondo gli Stati Uniti. Ricordo solo un elemento, il fatto che nelle contee a maggioranza afroamericana del Michigan, il Partito Repubblicano abbia in questi anni praticato una politica di riduzione tale della spesa pubblica, parliamo di comuni intorno a Detroit spesso collassati sulla scia della crisi dell’industria automobilistica e solo in parte recuperata durante l’amministrazione Obama in cui per raddrizzare i conti pubblici, il caso più famoso è quello della città di Flint, si è deciso di cambiare gli approvvigionamenti di acqua pubblica rivolgendosi a fonti locali, quelli del fiume Flint dove scaricavano da mezzo secolo le industrie oltre che i pesticidi delle aree rurali circostanti, avvelenando tantissimi bambini. Perché questo è accaduto senza che facesse scandalo finché la vicenda non è diventata talmente evidente? Parliamo di migliaia di bambini avvelenati dal piombo. Perché l’area della contea di Flint è abitata dal 60% da afroamericani poveri. Cioè sostanzialmente, questo è uno dei nuovi volti che ha il razzismo negli Stati Uniti, per esempio, il diritto alla salute.
WASP può essere celebrativo o dispregiativo che accezione avrà con il nuovo Presidente?
Il riferimento al titolo è perché nel dibattito della storia americana il riferimento all’ascendenza anglosassone protestante dei Padri Fondatori ha dominato a lungo nel dibattito pubblico. Nel senso che fino agli anni tra le due guerre mondiali tutti coloro che non erano di ascendenza protestante anglosassone rischiavano di finire vittime delle ricorrenti ondate xenofobe razziste. Non soltanto gli schiavi, i neri afroamericani, figli o nipoti legati alla schiavitù. Nessun nero afroamericano è arrivato di sua volontà negli Stati Uniti. Stiamo parlando di nipoti che hanno fatto parte della schiavitù ma poi il problema si è posto tra tutti quelli che non erano WASP, cioè i cattolici irlandesi, gli italiani, i greci, gli ebrei ma anche gli scandinavi. Di volta in volta le successive ondate d’immigrazione sono state accolte dal pregiudizio. Il fenomeno è poi cambiato a partire dal secondo dopoguerra, in realtà già si è cominciato a parlare di una comunità bianca, superati gli steccati dell’appartenenza identitaria e il problema è stato misurarsi con l’immigrazione non più proveniente dall’Europa. Fu soprattutto Richard Nixon negli anni ‘60 a portare in politica questo tipo di definizione. Gli americani parlano di white etnic cioè l’etnia bianca a partire da quel momento per definire quelli che nel censimento, loro chiamano i bianchi caucasici, quindi WASP non è più un riferimento disponibile nel mercato della politica, nessuno ne fa più uso. Il problema è che siccome il sistema razziale negli Stati Uniti è in qualche modo paragonabile a quello delle caste in India, cioè il fatto che anche aldilà della volontà di superare le barriere, spesso le biografie individuali e familiari sono iscritte dentro un livello di separazione che è frutto di duecento anni di storia. Ha colpito dopo l’elezione di Trump il ritorno del razzismo negli Stati Uniti per una serie di giovani neri uccisi dalle forze dell’ordine che degli importanti intellettuali americani come lo scrittore Jonathan Salzman ha dichiarato «Ebbene sì me ne dispiaccio ma io ho pochi amici afroamericani». Personalmente nel mio lavoro di giornalista ho raccolto spesso le opinioni attraverso interviste di scrittori, poeti, artisti statunitensi bianchi che dicono «Per avere una vita di relazioni anche con le persone appartenenti alle minoranze, ho dovuto superare quella che era la tradizione della mia famiglia, della mia terra, io magari venivo dal sud dove non tutti i bianchi avevano seguito il suprematismo bianco o fenomeni estremi come il Ku Klux Klan ma dove la separazione anche a cento, settanta, cinquant’anni dopo l’approvazione delle leggi sui diritti civili rappresenta spesso la quotidianità, quindi identità separate, neri con neri, bianchi con bianchi, ispanici con ispanici». Addirittura, pare che negli ultimi anni, anche il fenomeno dei matrimoni misti stia tornando indietro. La società americana dopo una fase iniziata nella seconda metà del Novecento, a partire dal movimento per i diritti civili e poi le leggi di Lindon Johnson che resero quelle proposte effettive e le trasformarono in norme. La società americana da questo punto di vista sta veramente tornando indietro.
Lei cita una frase di Howard Beale in Quinto Potere «Voglio che andiate alla finestra e gridiate: Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più». Potrà accadere una cosa del genere?
Quella frase è l’evocazione che credo si possa cogliere in una parte del voto nei confronti di Donald Trump. Del resto lui ha detto ai suoi elettori «Io sarò il vostro megafono, la voce di voi che non ne avete, la voce pubblica». Ha usato il grimaldello della crisi dell’establishment per lui che è un multimiliardario newyorchese che all’establishment è sempre stato legato, ed ha usato la critica a quello politicamente corretto come un grimaldello molto forte per costruire questa sua discesa in campo. Prima nei confronti dei vertici del Partito Repubblicano, non dobbiamo dimenticare che prima di vincere contro Hilary Clinton, Trump ha sostanzialmente schiacciato la leadership repubblicana. Dinastie come quelle dei Bush per cui tutto sembrava scontato o magari quella di avere una terza figura, in particolare Jeff Bush, alla Presidenza degli Stati Uniti e quindi perché il riferimento a Quinto Potere? Perché lì c’è evidentemente questa evocazione nel personaggio del presentatore televisivo che al culmine della sua carriera, quando sente che rischia di essere messo da parte, si trasforma in una sorta di oracolo del popolo e si offre come strumento del suo malessere interiore ma cerca di recuperare anche il malessere della popolazione, degli spettatori. Trump ha scommesso tutto su questo, ha detto fino in fondo quello che spesso nel dibattito pubblico viene detto. Dicevamo prima il muro ma conosciamo il suo linguaggio sessista, razzista anche nei confronti dei musulmani. Ha detto sostanzialmente qualunque tipo di offesa e talvolta anche di assurdità, dando voce però a questo senso dell’America, della pancia di una parte dell’America, di volersi liberare di quello che in qualche modo riteneva essere i diktat del politicamente corretto, dell’establishment. Molto attento Michael Moore che prima del voto aveva annunciato la possibilità che Trump venisse eletto ed ha scritto sul suo blog «La gente scriverebbe anche Mickey Mouse sulla scheda elettorale se questo servisse a rendere palese agli occhi dei politici di professione, quello che molti cittadini considerano l’establishment economico, politico, mediatico, il proprio rifiuto del medesimo establishment». Questo è stato il senso della citazione.
Michael Moore ha detto «La nostra era patriarcale durata 240 anni sta arrivando alla fine. Una donna sta per prendere il sopravvento». Davvero in America esiste ancora il maschilismo?
Il problema è a quale America noi pensiamo. Non bisogna banalizzare pensando necessariamente alla politica o alla storia sociale. Pensiamo invece alla musica, alla letteratura, al cinema, l’industria multimiliardaria del country di Nashville racconta una storia completamente diversa da quella dell’hip hop di Los Angeles o della musica urbana di New York. Eppure il country non è un fenomeno marginale. È un fenomeno che contraddistingue centinaia di milioni di americani attraverso le radio. Ci sono più Americhe: quella delle coste, delle grandi metropoli, quella del centro del Paese, quella di aree spesso dimenticate, di piccoli centri, di aree isolate, quella rurale e da questo punto di vista c’è sempre più spesso e l’ha raccontato un sociologo americano che si chiama Michael Kimmel e lo racconto nel libro. È uno dei sociologi americani che si occupa da più tempo della crisi della mascolinità e le forme in cui questa crisi si rappresenta. L’ho raccontata attraverso il fenomeno dei survivalist che accumulano le armi, aspettando la fine del mondo, delle milizie paramilitari, dei gruppi dell’estrema destra. Lui dice: «C’è in una parte dell’America, spesso con un titolo di studio più basso, spesso con livelli sociali più bassi, una profonda crisi dei maschi di questa parte d’America che hanno visto nel corso degli anni, il venir meno del loro primato». È una sorta di parallelo con il primato razziale di cui ragionavamo prima. C’è un primato del lavoratore bianco all’interno della famiglia, all’interno della comunità, minacciato questo ruolo da diversi fenomeni agli occhi di alcuni di questi maschi. Il crescere del ruolo pubblico delle donne ed anche la minaccia rappresentata dalle minoranze. Da questo punto di vista spesso la perdita del posto di lavoro si traduce in una perdita drammatica di status, altrettanto importante per alcuni di questi soggetti spesso altrettanto importante rispetto alla perdita del salario, del reddito. È una questione che ha attraversato la campagna elettorale. Ricorderà come il ritratto che è emerso di Trump era sostanzialmente poco meno di uno stupratore. Sono emersi racconti, affermazioni raccapriccianti fatti dallo stesso Trump eppure questo non ha allontanato più di tanto gli elettori. Segno che in una parte di essi, quegli elementi non fossero così rilevanti rispetto al carattere apertamente distante dalla popolazione, dalle condizioni di vita dei lavoratori bianchi. Hillary Clinton percepita come una che vive nelle sfere del potere tra l’amministrazione di Obama, il marito, la Fondazione Clinton e questo ha pesato di più rispetto al maschilismo aggressivo di Donald Trump perché c’è questa questione profonda su questa crisi della mascolinità. Kimmel arriva addirittura a spiegare che appartiene a chi lambisce questo fenomeno anche le vicende ricorrenti delle stragi nei college, nelle scuole statunitensi perpetrati quasi sempre da giovani bianchi appartenenti alla middle class. C’è un problema fondamentale perché nessuno in questo Paese ha insegnato ai maschi che non crescono emotivamente e culturalmente ad essere maschi in un altro modo. Il mondo che hanno di fronte lo interpretano ostile, aggressivo. Lo percepiscono come una minaccia e reagiscono con altrettanta minaccia.
Addio a diritti ed eguaglianze. Ancora oggi i neri sono considerati pericolosi. Il passato che ritorna o cosa?
Un passato che non è mai veramente passato come diceva William Folkler che non a caso veniva dal Mississippi. Che cosa è accaduto in realtà? È accaduto che il racconto che l’America bianca ha fatto degli schiavi, conteneva un elemento irriducibile in qualche modo alla civiltà, la descrizione della negritudine come un portato interiore che rendeva gli schiavi infidi, ribelli e con tendenze criminali. Questo tipo di portato per quanto sembri, è impossibile pensarlo, per molti versi rimane nella storia americana anche quando gli Stati Uniti chiudono dopo cento anni dalla guerra di secessione, malgrado la dichiarazione di emancipazione di Abramo Lincoln. Rimane nella percezione che si ha da una parte del Paese nei confronti degli afroamericani. La storia sociale fa il resto, nel senso che quando finisce la segregazione razziale, cominciano a crescere i ghetti urbani e spesso il ceto medio bianco, si calcola che il fenomeno sia arrivato al 50% delle realtà urbane degli Stati Uniti, il cosiddetto White Fligt , cioè il fatto che i bianchi si trasferiscano dai centri urbani verso i quartieri suburbani, le periferie residenziali, classici quartieri con le villette a schiera e il prato ben tagliato nel momento in cui i neri cominciano prima a scappare dalla segregazione e vengono attirati dallo sviluppo industriale verso le città del nord. In quel momento la questione del razzismo che, sembrava legata al meridione, agli ex Stati schiavisti, diventa una questione nazionale. È a Boston che scoppiano dei raid razzisti in una città a maggioranza irlandese, una popolazione che a sua volta aveva subito il razzismo e che in quegli anni arriva il Ku Klux Klan. Tutto questo produce la nascita dei ghetti urbani in cui l’emancipazione si nutre anche di marginalità economica, sociale. La barriera invisibile non è più quella del colore della pelle ma diventa spesso quella della povertà. L’aumento della criminalità, la diffusione della droga fa sì che nei confronti dei neri è come se esista una sorda eco di quell’idea che la negritudine in quanto tale era pericolosa, ciò che si diceva degli schiavi per poterli meglio reprimere. Questo portato di lungo periodo per certi versi arriva fino ad oggi. Ci sono nel linguaggio usato dalle forze dell’ordine, cui appartengono anche elementi delle minoranze e per fortuna gli agenti negli Stati Uniti non sono tutti bianchi, dei modi di dire “guidare come un nero” significa avere alla guida un atteggiamento pericoloso. Quel tipo di atteggiamento che fa sì che quando un auto percorre una strada a velocità sostenuta e viene fermata, spesso ci sia quel riflesso condizionato, s’immagina che al volante ci sia un nero, spacciatore oppure fatto di crack. La prima cosa che gli agenti fanno è estrarre le armi da fuoco e spesso anche quando il malcapitato tenta di prendere un documento d’identità, viene colpito. Questo è accaduto centinaia di volte e con modalità analoghe. Esiste una presunzione di colpevolezza, c’è un pregiudizio negativo nei confronti degli afroamericani. L’altra faccia è una visione “miserabilistica”, cioè quella d’immaginare che comunque gli afroamericani non ce la facciano. Concludo su questo per dire che è una condizione drammatica quella che continua a perpetrarsi negli Stati Uniti. Il New York Times ha scritto che mancano nel Paese, un milione e mezzo di maschi neri ogni giorno cioè tra coloro che sono detenuti, coloro che vengono uccisi, coloro che sono vittime di alcool o di crack. È evidente di quanto sia potente la stigmatizzazione ma il corollario sociale che essa si porta dietro.
Che tristezza…
L’idea è quella per tutte le vicende che producono il fatto che non siano presenti nei loro nuclei familiari, con la conseguenza che ci siano in mille comunità afroamericane, un numero di bambini che crescono senza padre. Questo per dire che è un fenomeno che tende a perpetrare la crisi e la marginalità e che ne proietta le conseguenze non solo sulla vita di tutti i giorni ma sul domani anche sulle nuove generazioni e questo da decenni.
Elisabetta Ruffolo