Cara nonna,
a te dedico questa lettera.
A te, che sei sorgente della mia vita, goccia in una cascata che ha originato il mio esserci. La dedico a te e tutte le antenate e gli antenati che mai sapranno di me e mai io saprò di loro. A quelli che forse erano re, o schiavi, a quelli che hanno ucciso o sono stati uccisi, a tutti i segreti che hanno portato con loro nelle tombe e alle speranze, sogni e preghiere che hanno soffiato tra le stelle. A te nonna, che mi hai cullata, ed ora a vederti foglia secca che si richiude io gemma vorrei darti tutta la mia linfa eppur non riesco.
Tra due giorni la nuova partenza, per te e per gli uteri che a Matrioska ti hanno contenuta e al tuo che conteneva il mio mistero.
Viaggio per onorare la vita che mi è concessa. Io non ho paura di morire, ho paura di non vivere. Viaggio per te che sei stata vittima di gelosia, di ottusità culturale, viaggio per la mia di libertà e anche per la tua.
Cercherò di vedere la realtà con i tuoi occhi, col tuo sguardo pieno di stupore e non col mio che giorno dopo giorno si disincanta, assuefatto dalla meraviglia. Conoscerò per te nonna, che dalla finestra della cucina parlavi ai merli, legavi loro dei messaggi alle zampine, sperando che li portassero lontano. Andrò a cercarli quei segreti e li restituirò al vento se camminando li troverò impigliati da qualche parte, come aquiloni prigionieri. Viaggerò infilando nella borsa delle guarigioni la dose di perdono che mi hai lasciato in eredità da quando sono, e il bisogno di sincerità, ultimo degli insegnamenti.
Prenderò un aereo diretto in California con la promessa di non lasciar appassire neanche una singola cellula del mio universo, perfetto come tutti gli altri.
La tua religiosità in me si è trasformata in uno stato di grazia.
Sorridi, ascolta, perdona, ama, sostieni.
Questo mese in Italia è stato dicotomico. Come quando riemergi dalle acque, l’aria che prima ti era indifferente improvvisamente punge e vorresti sprofondare nuovamente, così il rientro è stato. Il gelo ha percorso il mio corpo tanto da farmi sentire un uovo vuoto, un guscio contenente un freddo senza fine, i tremiti mi hanno scossa. Non erano i centigradi, era quello che avevo lasciato, amplificato. La frustrazione, la rabbia, la sofferenza intesa come particolare attaccamento al dolore, che prima vedevo, a quel punto urlavano.
E io mi chiedo quanti anni, lune, giri di clessidra, occorrono per rendere sordo un bambino. Perché se gli adulti sono persi, perché non vogliono essere salvati, perché ancora non hanno accettato lo stato confusionale nel quale versano, almeno i bambini dobbiamo salvarli. Almeno loro, tra i nomi dei martiri, risparmiamoli.
Ricordo le magie che tu, nonna, eri in grado di creare in me. Ho nitido il ricordo di te che aprivi la porta tra i due seni, e mi mostravi la camera luminosa nella quale il tuo cuore alberga. Era reale, come reale era il grigio e buio che intravedevo in altri di adulti.
Quando il mondo cessa di esser magico? Quando succede che associamo all’amore il dolore e ci promettiamo spose alla incongruenza?
E l’altra faccia della luna del dolore è la speranza. Parto per riprendere fiato prima dell’apnea.
Parto per tagliare tutti i rami prima della nuova fioritura. Tanto più c’è sofferenza, confusione, fatica, rabbia, tanto più c’è bisogno di volontari e sostegno. C’è bisogno nelle scuole, accanto alle maestre che ho incontrato in questo mese che tra le lacrime hanno coraggiosamente confessato il loro senso di vergogna, di impotenza di fronte ai diritti dei bambini che ledono, loro lo sanno, ma si sentono in un vicolo cieco.
C’è bisogno nelle case, dove la gioia di aver un figlio si trasforma nell’ennesimo possesso di un bene, che non deve rompersi, sporcarsi, sfuggire al proprietario e a ciò che esso aveva deciso per lui.
C’è bisogno nelle case, dove la gioia di avere un figlio non giunge e questo fa male, tanto male.
C’è bisogno negli ospedali, nei cantieri e nelle chiese.
C’è bisogno di tutti, non di qualche eletto.
E io parto, per scrollarmi di dosso il sistema mafioso che ho vissuto in questi giorni, fatto di vergogne vomitate, di infime bugie e di codardia che trasuda solamente fragilità.
Parto perché c’è tanto da fare, da scrivere, da raccontare, da amare.
Parto perché la mia casa è la via lattea, non Osimo.
Parto per te nonna, per te e la treccia rossa di Zia Giulia, la bella, morta per amore.
Questa volta ti metto io nella mia camera miocardica, farò attenzione a tutte le lamelle, sarò prudente a non polverizzarne alcuna al contatto con le pareti.
La luce creerà degli effetti incredibili, con te foglia spennacchiata.
Emily Mignanelli