La conferma della partecipazione italiana, dal 2018, alla composizione del battaglione Nato che sarà schierato in Lettonia ha scatenato polemiche sia sul piano internazionale sia sul fronte interno.
Mosca ha definito senza mezzi termini “distruttiva” la politica della Nato e i ministri Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni si sono affrettati a stemperare i toni sottolineando che per l’Italia il dialogo resta la via maestra per costruire buone relazioni con la Federazione Russa.
In Italia, dai banchi delle opposizioni parlamentari si è levato un coro pressoché unanime di critiche per due ordini di motivi: la fonte della notizia sarebbe stata una intervista al Segretario Generale della Nato, Jens Stoltenberg, anziché una comunicazione del Governo italiano; lo schieramento, con il meccanismo della rotazione, di quattro battaglioni Nato multinazionali in Polonia e nei Paesi baltici, ideato per lanciare alla Federazione Russa un messaggio di fermezza, sarebbe controproducente e sortirebbe l’effetto di rendere ancora più tesi i rapporti tra Occidente e Mosca.
Il primo motivo è apparso pretestuoso e quindi riconducibile alla polemica politica nazionale, in quanto la disponibilità italiana era stata già annunciata dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso della conferenza stampa tenuta al termine del vertice Nato di Varsavia dal 7 al 9 luglio 2016 e confermata il 26 luglio scorso dal ministro della Difesa Roberta Pinotti in una audizione alle commissioni Esteri e Difesa riunite di Palazzo Madama e Montecitorio. Tuttavia, le proteste delle opposizioni italiane hanno il merito di porre l’attenzione su una questione rilevante: il controllo politico sulle forze armate, sempre conteso tra potere legislativo e potere esecutivo. Si tratta di una diatriba che riguarda tutte le democrazie, non solo di tipo parlamentare.
La Costituzione italiana prevede una distribuzione di responsabilità, per cui al Parlamento spetta il potere di dichiarare guerra, mentre il Presidente della Repubblica è a capo delle forze armate. Ma il nodo delle responsabilità politica diviene difficile da sciogliere quando le operazioni militari italiane non sono autonome, bensì inserite in un contesto multinazionale, come è il caso della Nato.
I vincoli derivanti dai trattati internazionali possono avere l’effetto di togliere porzioni di sovranità alle istituzioni italiane, in quanto la decisione politica primaria risiede altrove; nel caso specifico, poiché Nato è sinonimo di Usa, i decisori abitano a Washington.
Non è una novità. E’ sempre stato così sin dalla fondazione, nel lontano 1949, dell’Alleanza atlantica. Le ferree regole della guerra fredda rendevano pressoché impossibile, ma anche non auspicabile, una deviazione dalla linea politica decisa a Washington. A parte qualche malumore isolato e sporadici tentativi di sottolineare una presunta autonomia decisionale e operativa – come avvenne per la Francia di De Gaulle, che nel 1967 giunse al punto di uscire dalla Nato -, il pericolo sovietico costringeva tutti i membri della Nato ad allinearsi alle direttive statunitensi. L’Unione Sovietica era il nemico comune e la Nato era stata fondata per fronteggiarla.
Finita la guerra fredda, scomparse l’Urss e il Patto di Varsavia, in molti si aspettavano lo scioglimento della Nato perché era venuta meno la sua ragione di esistere, la sua missione. Le cose andarono diversamente: la Nato cambiò pelle, trasformandosi in uno strumento militare da utilizzare anche per scopi diversi da quelli definiti nella sua carta istitutiva e, paradossalmente, entrò in azione per la prima volta in Kosovo nel 1999. Successivamente l’Alleanza atlantica ha modificato la sua strategia ed esteso il suo raggio d’azione con la progressiva inclusione di 12 nuovi stati membri, un tempo tutti appartenenti al blocco sovietico, la costruzione di nuove basi militari nei loro territori e la partecipazione ad azioni di costruzione o mantenimento della pace in Europa, Asia e Africa.
La preminenza degli Stai Uniti in seno alla Alleanza atlantica condiziona, oggi come ieri, le strategie e le decisioni sugli interventi nei diversi teatri. Ma se durante la guerra fredda il nemico era unico per tutti i membri della alleanza, oggi la percezione che ciascun Paese Nato ha delle diverse minacce che incombono su Nord America e Europa è tutt’altro che uniforme. Le operazioni del 2011 in Libia sono un esempio delle differenti valutazioni, derivanti dagli altrettanto differenti interessi che ogni Paese può avere nell’area geografica in cui si prospetta la necessità di un intervento diretto.
E qui arriviamo alla seconda questione sollevata dai partiti di opposizione italiani: lo schieramento dei quattro battaglioni Nato in Polonia e nei paesi baltici avrà effetti negativi sulle relazioni della Unione Europea con la Federazione Russa.
E’ probabile che accada.
Nel 2002 un prudente spirito di collaborazione aveva portato alla nascita del Consiglio Nato-Russia con l’intento di fare fronte comune alla minaccia del terrorismo internazionale.
Tuttavia, non è difficile comprendere la preoccupazione russa per la successiva estensione del perimetro geografico dei paesi Nato, che in pochi anni ha di fatto spostato di 800 km verso Mosca quella che una volta chiamavamo la “cortina di ferro”.
Sul fronte opposto, l’intervento in Georgia nel 2008 e più recentemente la forzata annessione della Crimea e le pesanti ingerenze nella crisi ucraina non possono aver contribuito a tranquillizzare quei paesi europei che un tempo erano parte del cosiddetto “impero esterno” dell’Urss, come la Polonia e i paesi baltici, sulle intenzioni del potente vicino.
Specularmente, gli annunciati nuovi possibili ingressi nella Nato – come il Montenegro – e più ancora l’entrata in funzione, nel maggio del 2016, del sistema radar anti-missile dislocato in Romania hanno provocato le proteste della Russia, che interpreta lo scudo antimissile Nato come un atto di ostilità nei suoi confronti.
Nel suo libro “Il nuovo muro” pubblicato lo scorso anno, l’ultimo Segretario Generale del PCUS Michail Gorbacev ha scritto:
“la generazione di uomini politici succeduta alla nostra non è stata in grado di consolidare la sicurezza in Europa e nel mondo. L’errore più grave, in tal senso, è stata la decisione di ampliare il raggio d’azione della Nato e l’usurpazione da parte di quest’ultima del ruolo di garante della sicurezza, e non solo in Europa, ma anche al di là dei suoi confini”.
Sull’atteggiamento assunto da Washington nei confronti di Mosca, così si è espresso Carlo Jean, in un articolo pubblicato sul numero di Limes del settembre 2016:
“Probabilmente Washington non ha mai creduto allo spirito di Pratica di Mare: con nuove proposte di allargamento della Nato, la denuncia del Trattato Abm [il trattato firmato nel 1972 da Urss e Usa per limitare le possibilità di difesa antimissile delle due parti, n.d.a.] e le rivoluzioni colorate ha umiliato la Russia fino a provocarne la reazione”.
Le tensioni tra Russia e Nato sono in realtà tra Russia e Stati Uniti. Questi ultimi stanno portando avanti una loro strategia coerente con i propri obiettivi geopolitici che non necessariamente collimano con quelli europei: se ai tempi dell’Unione sovietica gli scambi commerciali tra Europa occidentale e Urss erano marginali rispetto all’entità totale del commercio europeo, oggi ciascuno dei grandi paesi europei, Germania, Francia o Italia, ha una rete di scambi commerciali con la Federazione Russa così consistente da avere molto più da perdere che da guadagnare a causa di un irrigidimento delle relazioni est-ovest. E’ quindi comprensibile che l’atteggiamento europeo nei confronti di Mosca sia diverso da quello del potente alleato americano.
Ma l’Europa avrà la possibilità di impostare una strategia autonoma soltanto quando potrà disporre di una propria forza di difesa europea. In questa ottica, la proposta della ministra della Difesa italiana Roberta Pinotti di rafforzare il grado di coordinamento delle forze armate dei singoli paesi Ue per costituire una difesa più efficace da opporre alle minacce che incombono sul Vecchio continente rappresenta sicuramente un passo in avanti. Ma non basta.
Se l’Europa, nella attuale forma di Unione europea o in una qualsivoglia forma possa assumere in futuro, vuole essere in grado di impostare una politica estera autonoma – in particolar modo da Washington – ha una sola strada davanti a sé: uscire dalla Nato e costituire una forza militare europea sovranazionale, riprendendo quello che negli anni Cinquanta del secolo scorso fu il progetto della Comunità Europea di Difesa, ma che a differenza dell’idea originaria della CED non sia inquadrata sotto il comando Nato.
Ciò comporterebbe un programma congiunto di ristrutturazione delle forze armate a livello europeo, l’individuazione dell’organo a cui affidare la responsabilità politica del nuovo esercito europeo, un probabile piano per la dotazione di un arsenale nucleare minimo – a meno che la Francia non sia disposta a mettere a disposizione il suo, cedendone il controllo al livello sovranazionale – e il superamento delle resistenze di tutti i complessi militari-industriali nazionali presenti in tutti i Paesi.
I politici europei sono disposti ad affrontare un compito così gravoso?
Giovanni Ciprotti