La morte di Fidel Castro ha riportato temporaneamente Cuba sulla ribalta internazionale. Con lui se n’è andato l’ultimo dei grandi personaggi del XX secolo, un leader carismatico tanto odiato quanto amato. Non è possibile prevedere se la storia lo assolverà, come lui stesso ebbe a dichiarare nel 1953 durante il processo per il fallito attacco alla caserma Moncada.

La storia personale di Fidel Castro corre parallela con quella di Cuba degli ultimi sessantacinque anni. È impossibile scinderle; entrambe sono state caratterizzate e condizionate dal rapporto conflittuale con gli Stati Uniti. Tuttavia, le tormentate relazioni tra l’isola caraibica e il gigante nordamericano affondano le loro radici nella seconda metà dell’Ottocento, quando ancora gli Stati Uniti non erano diventati una potenza mondiale ma avevano già chiarito quale fosse la loro visione del continente americano, dallo Stretto di Bering alla Patagonia.

Nel 1898, dopo tre decenni di dibattiti tra isolazionisti e interventisti, gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Spagna per ristabilire l’ordine a Cuba. Da alcuni anni la guerriglia cubana era impegnata in una lotta per l’indipendenza dal regime coloniale spagnolo. Inizialmente Washington non era intenzionata ad intervenire. Come scrive lo storico Mario Del Pero, “il debole controllo spagnolo aveva costituito negli anni una forma di garanzia: non impediva la penetrazione economica e commerciale statunitense; evitava un intervento nella regione di altre, ben più solide potenze europee; preveniva il controllo di Cuba da parte di forze nazionaliste che avrebbero potuto assumere posizioni antistatunitensi”[1].

Soltanto quando ebbe la percezione che gli spagnoli non fossero più in grado di contenere i ribelli e temendo uno sbocco della rivolta non favorevole agli interessi statunitensi, il presidente William McKinley optò per l’intervento armato. L’evento che contribuì a far precipitare la situazione fu, nel febbraio 1898, l’esplosione della corazzata USS Maine ancorata nel porto dell’Avana e la morte di 260 dei quasi 400 marinai a bordo. Probabilmente la causa fu un incendio scoppiato in sala macchine, ma i giornali statunitensi versarono fiumi d’inchiostro per chiedere di lavare l’onta di un vile attentato, inizialmente attribuito ad una mina.

Gli Stati Uniti chiesero alle due parti in conflitto di sospendere le ostilità e si proposero come arbitro, ma la proposta non sortì gli effetti sperati e l’amministrazione statunitense decise di dichiarare guerra alla Spagna. Le operazioni militari durarono soltanto tre mesi e si risolsero con la disfatta degli spagnoli, i quali persero Cuba, Portorico e le lontane Filippine.

Dopo la guerra si pose il problema del futuro di Cuba, formalmente indipendente ma occupata dalle forze armate statunitensi (sarebbero rimaste nell’isola per quattro anni). L’annessione dell’isola agli Stati Uniti non era praticabile perché l’autorizzazione all’intervento armato da parte del Congresso includeva un emendamento presentato dal senatore Henry Teller, in base il quale “gli Stati Uniti rinunciavano ai propositi di esercitare sovranità, giurisdizione o controllo dell’isola, eccetto a scopo di pacificazione, e dichiaravano il loro intento di lasciare il governo e il controllo dell’isola al suo popolo, una volta ottenuta la suddetta pacificazione”. La situazione venne chiarita nel 1901, con l’approvazione di un emendamento proposto dal senatore Orville Platt. L’articolo 3 dell’emendamento recitava: “il governo di Cuba acconsente che gli Stati Uniti possano esercitare il diritto di intervenire per la salvaguardia dell’indipendenza cubana”. Per renderlo ancor più vincolante, nello stesso anno l’emendamento Platt venne incorporato nella Costituzione cubana.

La strategia di Washington trovò la sua completa formulazione nel “corollario Roosevelt” del 1904: “se una nazione dimostra di saper agire con ragionevole efficienza e onestà nelle questioni sociali e politiche, se mantiene l’ordine e rispetta gli impegni, non deve temere alcuna interferenza da parte degli Stati Uniti. […] Nell’emisfero occidentale, l’adesione degli Stati Uniti alla Dottrina Monroe potrebbe costringerli, per quanto in maniera riluttante, all’esercizio di un potere di vigilanza internazionale nei casi flagranti di trasgressione o debolezza di tal genere”[2]. La Dottrina Roosevelt, forte della copertura giuridica fornita dall’emendamento Platt, indusse gli Stati Uniti ad intervenire militarmente sull’isola di Cuba nel 1906, 1912 e 1932.

Nei primi cinquant’anni del XX secolo a Cuba si alternarono diversi governi, non di rado dominati da giunte militari, la cui durata dipendeva in larga parte dal gradimento mostrato da Washington nei loro confronti. Nel 1952 il secondo colpo di stato di Fulgencio Batista – il primo era avvenuto nel 1933, quando il trentaduenne Batista era un sergente dell’esercito – rafforzò il controllo, diretto e indiretto, delle imprese statunitensi sull’economia dell’isola, incentrata sulle coltivazioni di canna da zucchero e sul turismo di lusso per i ricchi “yankees”.

Il regime di Batista aveva caratteri autoritari e repressivi nei confronti del dissenso, ma offriva condizioni favorevoli agli investimenti stranieri, statunitensi in primis. La violenza della repressione governativa, il dilagare della corruzione e la crescita delle diseguaglianze tra i pochi cubani che prosperavano e la moltitudine della popolazione che diveniva sempre più povera furono il contesto socio-economico in cui maturò la rivoluzione castrista. Il 1° gennaio 1959 Fungencio Batista era costretto a fuggire dall’isola, mentre i “barbudos” di Fidel Castro sfilavano vittoriosi per le strade dell’Avana.

L’ascesa al potere di Fidel Castro rappresentò per gli Stati Uniti un pericolo nuovo da affrontare: da un lato comprometteva in modo diretto interessi economici consolidati; dall’altro avrebbe potuto costituire un insidioso esempio da seguire per gli altri paesi dell’area centroamericana, le cui economie erano largamente condizionate, quando non controllate, da capitali ed aziende statunitensi. Inoltre, le sospette simpatie di Castro per il marxismo insinuavano il timore della penetrazione comunista nell’emisfero occidentale. Ma almeno nella fase iniziale la rivoluzione castrista aveva caratteri nazionalisti, non marxisti. Nell’aprile del 1959 Castro si recò a New York e durante il soggiorno nella Grande Mela incontrò, tra gli altri, il vice-presidente Richard Nixon. Pochi giorni dopo, un rapporto del Dipartimento di Stato USA dichiarava che “riguardo alla sua posizione sul comunismo e sulla lotta della guerra fredda, Castro ha cautamente indicato che Cuba vorrebbe restare nel campo occidentale. Tuttavia, la sua posizione deve essere considerata incerta”[3].

Il punto di non ritorno nelle relazioni tra la Cuba castrista e gli Stati Uniti fu probabilmente il varo della riforma agraria, voluta da Castro nel maggio 1959. Le proprietà dei latifondisti vennero espropriate e ridistribuite ai contadini. Le proteste di Washington si concentrarono sul meccanismo di indennizzo previsto dalla riforma: gli indennizzi sarebbero stati calcolati sulla base delle dichiarazioni rese al fisco dai proprietari, mentre questi ultimi avrebbero voluto che fossero calcolate rispetto al valore reale dei terreni, e gli espropriati sarebbero stati pagati con titoli del tesoro ventennali.

Nei mesi successivi il Dipartimento di Stato e la CIA furono impegnati a studiare programmi per rovesciare Castro, possibilmente evitando che emergesse la responsabilità degli Stati Uniti. Già dal mese di ottobre 1959 gli Usa finanziarono, addestrarono e fornirono supporto logistico alle formazioni anti-castriste degli esuli cubani rifugiati in Florida, da cui partivano per atti di sabotaggio delle piantagioni e degli zuccherifici cubani. In un memorandum del Segretario di Stato per il Presidente USA, datato 5 novembre 1959, si legge: “non esiste alcuna base ragionevole per fondare la nostra politica sulla speranza che Castro adotterà volontariamente politiche e atteggiamenti consistenti con gli interessi politici e i requisiti di sicurezza minimi degli Stati Uniti; la prolungata continuazione del regime di Castro a Cuba nella sua forma attuale avrebbe gravi effetti contrari alla posizione degli Stati Uniti in America Latina e corrispondenti vantaggi per il comunismo internazionale”[4].

Le relazioni tra l’Avana e Washington divennero sempre più tese nei mesi tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960: i giornali statunitensi si impegnarono in una campagna stampa anti-castrista così intensa da indurre il governo cubano a presentare a Washington ufficiali rimostranze ; la serie di attentati organizzati o quanto meno finanziati dalla CIA sul territorio cubano culminò, il 4 marzo 1960, con l’esplosione della nave francese “La Coubre” ancorata nel porto dell’Avana, nella quale morirono più di 70 persone.

La manifesta ostilità statunitense spinse Castro a volgere lo sguardo altrove in cerca di partner alternativi con cui stringere rapporti sia di natura commerciale sia militare. La scelta, quasi obbligata, era rappresentata dall’Unione Sovietica e in generale dai paesi comunisti. Un passo importante in quella direzione fu la visita a Cuba, nel febbraio 1960, del vicepresidente del consiglio sovietico Anastas Mikojan. Cuba e URSS siglarono un accordo in base al quale Mosca avrebbe acquistato un ingente quantitativo di zucchero cubano. Dai documenti governativi americani di quel periodo, tra i quali un memorandum della CIA dedicato proprio alla visita di Mikojan, traspariva la preoccupazione per il fatto che Cuba riuscisse a “ridurre la sua dipendenza economica dagli Stati Uniti e consolidare le relazioni con Mosca”[5].

Il mese successivo, il presidente Dwight Eisenhower autorizzò un programma di operazioni segrete per rovesciare il regime di Fidel Castro: “lo scopo del programma illustrato è ottenere la sostituzione del regime di Castro con un altro dedicato ai veri interessi dei cubani e più accettabile per gli Stati Uniti in modo da evitare qualsiasi ipotesi di intervento degli Stati Uniti. […] Sono stati già avviati i preparativi per lo sviluppo di una adeguata forza paramilitare all’esterno di Cuba, insieme ai meccanismi per il necessario supporto logistico delle operazioni militari segrete sull’isola“[6]. Un’involontaria sconfessione della dottrina del presidente Harry Truman, il quale nel marzo 1947, chiedendo al Congresso statunitense lo stanziamento di 400 milioni di dollari per aiutare la Grecia e la Turchia, aveva dichiarato: “credo che la politica degli Stati Uniti debba essere quella di sostenere i popoli liberi che stanno resistendo ai tentativi di sottomissione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne”[7]. Nel 1960 il grado di consenso interno di Fidel Castro era alto, quindi non si poteva certo parlare di “minoranze”, e le pressioni esterne erano esercitate soltanto dagli USA.

Tra le misure adottate dagli Stati Uniti per indebolire il regime di Castro, vi erano quelle di natura economica. Gli ostacoli non militari frapposti da Washington allo sviluppo dell’isola culminarono con l’adozione, nell’ottobre 1960, dell’embargo commerciale che prevedeva persino limitazioni per paesi terzi che intendessero commerciare con Cuba, tanto da sollevare più di una protesta a livello internazionale. Dal punto di vista militare, invece, la più importante e famosa azione risultante dal programma approvato nel 1960 dalla Casa Bianca fu lo sbarco di un contingente di poco più di un migliaio di esuli cubani, il 16 aprile 1961, nella Baia dei Porci. L’iniziativa, programmata dall’amministrazione Eisenhower e confermata dal presidente John Fitzgerald Kennedy, si risolse in una disfatta per il commando e una sconfitta politica per gli Stati Uniti, che non riuscirono a nascondere il proprio coinvolgimento nella sfortunata operazione.

Cuba gravitava ormai pienamente nell’orbita sovietica – le relazioni diplomatiche ufficiali tra l’Avana e Mosca erano riprese nel maggio 1960 – e l’atteggiamento e le iniziative di Washington rispondevano alle logiche della strategia del “contenimento” impostata dall’amministrazione Truman all’inizio della guerra fredda.

Con l’avvento di John Fitzgerald Kennedy alla Casa Bianca, l’azione statunitense contro Cuba si fece più intensa con il varo del programma Mongoose (Mangusta), nell’ambito del quale l’operazione Northwoods prevedeva una serie di misure atte a costruire pretesti che giustificassero l’intervento militare statunitense: “organizzare incidenti nei pressi della base americana di Guantanamo con la complicità di cubani “amici”, […] preparare un incidente simile a quello occorso al “Maine” nel 1898, affondando un battello privo di equipaggio nella acque della baia di Guantanamo o comunque in acque cubane, magari nei pressi dell’Avana o di Santiago, e incolpare Cuba per aver sferrato un attacco aereo o navale, […] sviluppare una campagna terroristica dei comunisti cubani nella zona di Miami, in altre città della Florida o anche a Washington, […] utilizzare aerei simili ai Mig ed utilizzati da piloti statunitensi per effettuare tentativi di attacchi a bastimenti e aerei civili americani”[8].

La crisi dei missili sovietici dell’ottobre 1962 rappresentò l’apice dello scontro tra Cuba e gli USA, ma determinò anche la cristallizzazione dello status quo che non sarebbe più stato alterato né da esplicite operazioni militari né dagli effetti dell’embargo commerciale imposto da Washington. “El bloqueo”, come è chiamato nell’isola, venne infatti confermato ben oltre la fine della guerra fredda, a partire dall’approvazione nel 1992 del Cuban Democracy Act[9], durante l’amministrazione Clinton, fino al recente voto, il 26 ottobre scorso, dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la cancellazione dell’embargo a Cuba: per la prima volta gli Stati Uniti non hanno votato “no” e la risoluzione è stata approvata con 191 voti a favore e due astensioni (USA e Israele), ma finora il Congresso statunitense non ha mostrato di voler revocare l’embargo.

Il giudizio sull’operato politico di Fidel Castro è destinato a restare controverso, con molte luci e ombre, in un perenne dibattito tra i suoi detrattori che tenderanno a sminuirne i successi e i sostenitori che cercheranno di minimizzarne i fallimenti e i soprusi.

Il lavoro degli storici sarà arduo, ma una premessa potrebbe aiutare ad inquadrare correttamente la complessa vicenda cubana. La parabola politica del Lider Maximo non dovrebbe essere valutata mediante i parametri del XXI secolo e l’appiattimento dei criteri di valutazione sul solo tema, sebbene importante, del rispetto dei diritti umani. Per far luce sul ruolo di Castro, in particolare nella prima fase del suo regime, sarebbe utile adottare il prisma interpretativo e le categorie della guerra fredda. E le figure rispetto alle quali sarebbe bene comparare l’azione politica del dittatore cubano non sono i leader occidentali di oggi, ma i Batista cubani, i Somoza nicaraguensi e i Duvalier haitiani della seconda metà del secolo scorso, dittatori non di rado ben più spietati di Castro ma che sono stati tollerati e sostenuti dall’Occidente nel nome di un anti-comunismo che tutto giustificava.

Giovanni Ciprotti

[1] Mario Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006, Laterza, 2008, pag. 166

[2] Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Feltrinelli, 2004, pagg. 141-142

[3] Memorandum Prepared in the Department of State, 23/04/1959, https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1958-60v06/ch6 – documento n° 292

[4] Memorandum From the Secretary of State to the President. “Current Basic United States Policy Toward Cuba”, 05/11/1959, https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1958-60v06/ch8 – documento n° 387

[5] Memorandum CIA, Mikoyan in Cuba, 11/02/1960, https://www.cia.gov/library/readingroom/docs/DOC_0000132448.pdf

[6] US National Security Council, A program of covert action against the Castro regime, 16/03/1960, https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1958-60v06/ch9 – documento n° 481

[7] Discorso al Congresso USA del presidente Harry Truman, 12/03/1947, https://www.ourdocuments.gov/doc.php?doc=81&page=transcript

[8] US Joint Chiefs of Staff, Memorandum for the Secretary of Defense. Justification for US Military Intervention in Cuba, 13/03/1962, http://nsarchive.gwu.edu/news/20010430/northwoods.pdf

[9] US House of Representatives, Cuban Democracy Act, 24/09/1992, https://www.congress.gov/bill/102nd-congress/house-bill/5323