Al Teatro Studio Frigia 5 di Milano dal 16 al 19 febbraio sarà in scena In Paradiso vestono bene, scritto e diretto da Riccardo Italiano e interpretato da Caterina Campo e Vincenzo Palladino.

Chi di noi non ricorda il vestito del dì di festa che serviva per andare a Messa e a fare lo struscio nel corso principale della città? Non so se ancora si usi nei piccoli centri ma sicuramente tutti al cospetto dell’Altissimo o di qualsiasi altra entità saremo vestiti bene. Riccardo Italiano autore e regista, già come aveva fatto in Martha – la Memoria del Sangue e in Ricorda con rabbia continua a indagare i tumulti dell’animo umano, come costante dei suoi spettacoli perché «È questa la meraviglia del palcoscenico». Dalila (Caterina Campo) e Stefano (Vincenzo Palladino) vengono travolti da una valanga e sepolti dalla neve nel rifugio nel quale si trovavano. Guardando la morte in faccia, riemergono dal passato, dei ricordi che credevano di aver dimenticato.

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Ritratto di Riccardo Italiano. Ph. di Roberta Giannitto. (c).

Per TheMartian.eu abbiamo intervistato l’autore e regista Riccardo Italiano e gli interpreti, Caterina Campo e Vincenzo Palladino che fanno coppia anche nella vita.

Da cosa nasce il titolo?

Riccardo Italiano. Il titolo nasce da un ricordo. Un ricordo bellissimo. Sono cresciuto in un piccolo paese vicino Crema. Quand’ero piccolo, i fiumiciattoli lo attraversavano e le cascine lottavano contro l’inesorabile avanzare del cemento. La domenica, mio nonno, come tutti i nonni, sfoderava il proprio vestito migliore per andare in chiesa e per pranzare in famiglia. Molti di loro erano persone umili, semplici. Spesso, quel vestito, non a caso chiamato “vestito della domenica”, era anche l’unico che possedevano. Era meraviglioso vedere con quanta fierezza lo indossavano. Dedicato a mio nonno Gino, la persona migliore che abbia mai conosciuto. Dedicato a tutti loro, ai nostri nonni, perché a detta loro « C i si deve vestire bene a cospetto dell’Altissimo».

Perché indagare sui tumulti dell’animo umano?

Riccardo Italiano. Indagare sui tumulti che agitano l’animo umano è una costante dei miei spettacoli. A dire la verità, dovrebbe essere una costante di ogni spettacolo teatrale. Altrimenti di cosa stiamo parlando? Questa è la meraviglia del palcoscenico. Un’arte che è unica e immortale. Ci sono persone su quelle tavole di legno, filtrate solo e soltanto da una parete immaginaria. Si agitano cuori e anime, speranze e battaglie, amori e nemici, quale che sia la storia, quale che sia la motivazione che spinge quel personaggio o quell’altro, di questo parliamo. Non esiste e non esisterà mai, nella storia del mondo, un’arte più nobile di quella teatrale. Perché? Perché tutto accade qui e ora. Quello che viviamo, quello che facciamo vivere allo spettatore, non esisterà mai una finzione più reale di questa.

Lo spettacolo è più che mai attuale, dopo la tragedia di Rigopiano. Come vi eravate preparati i rispettivi ruoli e cosa è cambiato nel prima e dopo i fatti di cronaca?

Caterina Campo. All’inizio ho cercato di documentarmi, ho visto tanti video di valanghe e di persone, principalmente sciatori, che ne venivano travolti. Ho cercato anche di ricordare un’esperienza personale in cui ero rimasta intrappolata in mare sotto una barca. Non c’entra ovviamente con la neve, ma ricordo nel sangue il terrore e l’ansia di non riuscire a tirarmi fuori di lì, la sensazione di claustrofobia, la vita passata davanti in un secondo. Quando ho appreso la notizia di Rigopiano…mi si è gelato il sangue. Non volevo crederci. Ho letto le testimonianze dei sopravvissuti, ho cercato di farlo nel rispetto di quelle persone, ho cercato di essere delicata nel carpire i loro stati d’animo. Dopo la tragedia, durante una prova, ho visualizzato di colpo la hall dell’albergo e sono scoppiata a piangere. Il compito dell’attore è quello di diventare strumento di qualcosa di più grande, per testimoniare la vita. Non nascondo che quando sarò in scena cercherò di essere vera, credibile, e di rivolgere una preghiera per quelle persone tramite l’arte del recitare.

Vincenzo Palladino. In questo spettacolo il focus è rappresentato dal rapporto tra i due personaggi e la valanga diventa l’elemento che obbliga a vivere il qui e ora. I fatti di cronaca mi hanno scosso a livello umano e mi hanno dato la conferma che spesso la realtà supera la fantasia. Ho letto le varie testimonianze cercando di cogliere più gli aspetti concreti sulla percezione di se stessi, degli altri e dell’ambiente circostante.

Quali sono i tumulti umani rappresentati e quanti di questi vi appartengono effettivamente?

Caterina Campo. Parola perfetta, tumulti. Pulsione sessuale, terrore, claustrofobia, amore puro, liberazione travolgente, più della valanga. Entrambi i protagonisti nascondono delle tragedie personali che riaffiorano prepotentemente proprio quando loro stessi si ritrovano nascosti dal mondo, sommersi dalla neve, al sicuro da una vita apparentemente perfetta, che però si rivela la vera e unica prigione. Allora…l’idea di un possibile salvataggio da quel rifugio, diviene sempre più il suo opposto: un ritorno al buio, perché una volta aperto il vaso di Pandora…non si può più accettare di tornare indietro. Cosa mi appartiene di Caterina? Ho vissuto anche io una brutta esperienza da bambina, l’ho sempre nascosta dentro di me, cercando di non pensarci. Ma in un momento di difficoltà da adulta, quello schifo è riemerso prepotentemente e non ho più potuto ignorarlo. Mi appartiene l’amore, che provo per mio marito, che poi è il mio compagno di scena. Ma per il resto, sono felice della mia vita, a differenza di Dalila.

Vincenzo Palladino. Sicuramente la perdita di punti di riferimento, l’odio verso chi ha segnato negativamente la tua vita, il senso di colpa. A vari livelli sono esperienze che appartengono alla vita di ciascuno di noi.

La sopravvivenza farà riemergere un passato che credevate sepolto per sempre. È la condizione in cui vi trovate a portarlo a galla o sarebbe riemerso comunque?

Caterina Campo. No, quel passato non sarebbe riemerso così prepotentemente. La situazione tragica fa da amplificatore emozionale, ma anche da nascondiglio sicuro, dove certi segreti possono essere svelati.

Vincenzo Palladino. Credo che ogni crisi necessiti di un elemento scatenante. Spesso è più facile ignorare la sofferenza, contrastarla riempendo la propria vita di piccoli inganni. Ci fa sentire al sicuro.

Il mondo esterno e quello interno, a quale vi aggrappate per cercare di sopravvivere e perché?

Caterina Campo. Ci aggrappiamo al mondo interno, al rifugio, dove non ci rifugiamo dal freddo della montagna, bensì dalla vita vissuta fino a quel momento, prima della valanga. Quel mondo interno così ristretto, claustrofobico, senza finestre, diviene in realtà la nostra boccata d’aria, ossigeno per tornare a respirare a pieni polmoni, dopo una vita vissuta senza far sentire il nostro fiato per paura di fare rumore.

Vincenzo Palladino. Quello che nasce tra i due personaggi è tanto forte da rappresentare la speranza di una vita migliore. In quel luogo sono liberi di dirsi tutto e quello che si diranno sono consapevoli che non uscirà mai da lì.

L’amore in casi come questi unisce o separa?

Caterina Campo. Io credo che l’amore unisca sempre, altrimenti non sarebbe tale. In questo caso, più che mai, questo sentimento puro, profondo, avvicina così tanto i due personaggi, da andare oltre la vita terrena, da portarli a desiderare di viverlo dopo la morte, perché la vita, quella vita in quel mondo esterno, non lo può permettere.

Vincenzo Palladino. Entrambe le cose. Unisce nella consapevolezza che esiste qualcosa di più grande di noi, di incontrollabile. Separa da tutto quello che è superfluo, dalle proprie prigioni.

Elisabetta Ruffolo