Ho avuto occasione in tempi recenti di assistere ad una conferenza del maestro Eduardo Souto de Moura o Souto Moura come preferirebbe essere chiamato. L’occasione era il ritiro del premio Piranesi, riconoscimento formale alla carriera dell’architetto portoghese. Una personalità tra le più ammirate e riconosciute dell’architettura contemporanea, una mano di rara sensibilità, sulla stessa onda dei suoi maestri reali, Alvaro Siza e Fernando Tavora, o elettivi, Mies van der Rohe, Le Corbusier e Giuseppe Terragni.

Personalmente mi è sembrata una persona calma, riflessiva, schietta, mossa da una sfrenata passione per il suo lavoro. Ha preferito parlare poco, far scorrere le immagini, i suoi progetti parlavano al posto suo. Progetti fatti di architettura anonima, architettura vera, nata dalle necessità dell’uomo. Non è la ricerca dell’originalità che lo spinge, non è la moda che lo attrae, ma l’uomo, la vita, le semplicità. Per Eduardo Souto de Moura l’architettura deve corrispondere ad un fine, ad una utilità; deve liberarsi del superfluo per ricercare la maniera più semplice e costruttiva, trovando la bellezza nelle proporzioni e nell’equilibrio.

Questo richiamo al pensiero razionalista non può venir banalizzato, dopotutto ai giorni nostri l’architettura è diventata ricerca high-tech, con soluzioni sempre più ardite, macchinose, che dovrebbero migliorare la vita delle persone. Souto de Moura rimane estraneo a questa tendenza. Lo spazio, la luce, una buona architettura, questi i fattori che migliorano il vivere delle persone perché rappresentano l’essenza stessa della vita.

Proprio per questo la storia, il tempo, diventano per Eduardo Souto de Moura un’infinita possibilità di ricerca e di riferimenti. C’è continuità nella storia dell’uomo, ogni cosa ritorna, “considero la storia dell’architettura – dice il maestro portoghese – come una successione di momenti, che, in qualità di progettista, mi interessano.” L’architettura non si inventa, l’architettura si cambia. Brillante in questo senso è il suo intervento al mercato di Braga. Qui è chiamato nel 1999 ad intervenire per decidere le sorti del mercato da lui stesso progettato nel 1980 e abbandonato una manciata di anni dopo. Il mercato consisteva in una grande copertura che poggiava su 32 colonne che dividevano lo spazio in tre campate. Al di sotto si sviluppavano tutti gli spazi del mercato, i cui setti tuttavia non toccavano mai la copertura. Il progetto del ’99 è invece un intervento di sottrazione. L’elemento lineare di definizione spaziale, la copertura ormai logora, salta, lasciando il colonnato libero di librarsi verso il cielo. La scelta è tanto disarmante nella sua semplicità, quanto efficacie nel suo fine. Lo spazio muta, non più mercato cittadino, ma area pedonale, spazio della città, spazio delle persone. Qui, a parola dello stesso architetto, ha assimilato una lezione di Aldo Rossi, suo professore a Santiago de Compostela, sul palazzo di Diocleziano a Spalato.

Abbiamo preso quest’intervento ad esempio come avremmo potuto prenderne molti altri. Le opere del maestro portoghese spingono l’osservatore a vagare nel complesso mondo della storia dell’architettura, sono tipiche e singolari allo stesso tempo, mutano ma con radici ben salde nella tradizione. È questo il filo rosso che dà continuità all’opera di Eduardo Souto da Moura, il portogallo, la sua terra, l’architettura vernacolare, tutti elementi che rimangono fissi, che rielabora e rielabora nella sua opera senza mai staccarsene.

Gabriele Feliziani