Una città europea, una classe e vicino alla Scuola lo “Zoo”, un campo profughi. Albert, straniero alla terza generazione, trentacinque anni, viene ad essere chiamato per un corso di recupero per degli studenti sospesi per motivi disciplinari. L’impatto è violento, i ragazzi sono al limite e trasformano la loro paura in rabbia. Il professore riesce ad aprire un varco per entrare in empatia con alcuni di loro. Il testo è avvincente e riesce a tenere inchiodati gli spettatori alla poltrona con la voglia di sapere la storia successiva e poi l’altra ancora, aspettando il finale. Un po’ come succedeva quando vedevamo i Film di Alfred Hitckcock. In scena dei veri fenomeni che danno vita ad uno spettacolo corale.
Per TheMartian.eu abbiamo intervistato Andrea Paolotti, nel ruolo di Albert.

Ritratto di Andrea Paolotti.
Come nasce il progetto dello spettacolo?
Nasce insieme ad una ricerca scientifica di Tecnè, che è una società d’indagine demoscopica che si è occupata di fare una ricerca sugli adolescenti e sul loro rapporto con il “diverso”, facendola su scala nazionale, intervistando telefonicamente quasi duemila studenti ed usando anche altri strumenti per la ricerca. Una parte di questi dati insieme agli incontri preliminari fatti con Tecnè, sono serviti come fonte d’ispirazione all’autore per delineare i profili dei personaggi. Nel frattempo noi della Compagnia insieme ad Amnesty International e a Baobab Experience ed alla SIRP che è l’associazione italiana per la riabilitazione psico-sociale ed a Phidia che è un Ente di Formazione, siamo andati nelle scuole ad incontrare i ragazzi, facendo delle assemblee con minimo 80 fino ad arrivare almeno a 300 ragazzi, in cui fornivamo delle informazioni con una serie di dati relativi alla situazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo. La SIRP si occupava anche di parlare della gestione della paura e del pericolo della sua strumentalizzazione e nel frattempo insieme a Baobab venivano con noi, dei richiedenti asilo che venivano dal Sudan, dalla Nigeria e da altri Paesi dell’Africa che raccontavano la loro storia. Successivamente a questi incontri i ragazzi sono venuti a vedere lo spettacolo. Negli spettacoli serali sono venuti gruppi ristretti di una o due classi mentre nelle matinée c’erano quasi trecento studenti e la reazione è sempre stata splendida. Non è uno spettacolo scolastico e neanche facile, è impegnativo, ha tante cose che avvengono all’interno e dura circa due ore. I ragazzi erano tutti molto presenti e partecipi.
Perché si strumentalizza così tanto verso il diverso?
Credo per fini propagandistici perché fa comodo ad una certa politica farla. La strumentalizzazione della paura è stato da sempre uno strumento di propaganda che si è dato contro il diverso culturalmente, politicamente, economicamente. È uno degli strumenti più efficaci da parte del potere e di una certa politica per avere un controllo e di conseguenza viene utilizzato anche in questo caso. Mi sono accorto che in particolare i ragazzi hanno un grande filtro che in qualche modo li tutela dall’induzione alle cose e che può essere da una parte un limite nel senso che non è semplice riuscire a creare un’empatia sia nel bene che nel male ma dall’altra parte li tutela sia dalla disinformazione che dalla induzione alla paura. Ho letto tante cose anche una serie d’interviste condotte da un altro gruppo teatrale che andava in giro a chiedere di cosa avessero paura i ragazzi. Beh, anche se non ha un grosso fondamento scientifico però su un campione di trecento ragazzi che sono stati intervistati, nessuno diceva “ho paura degli immigrati”, la paura era piuttosto relativa alla perdita di un familiare, di essere soli e quant’altro. Questo ci fa un po’ riflettere sul fatto che probabilmente la paura del diverso, la paura degli immigrati è una paura indotta. È la riflessione che ho fatto dopo la fine degli incontri e degli argomenti che ho approfondito e questo fa comodo ad una certa politica.

Locandina dello spettacolo La classe, di Vincenzo Manna.
Nello spettacolo, vicino alla scuola c’è lo Zoo, un campo profughi. Come reagiscono i ragazzi? Qual è l’approccio quando tu arrivi per il corso di recupero? Qual è l’impatto tra il prima ed il dopo?
L’impatto è molto violento, non voglio svelare nulla perché una delle bellezze di questo spettacolo è proprio la storia. La gente rimane inchiodata realmente alla poltrona perché gli viene raccontata una storia della quale vuole sapere il passaggio successivo e poi l’altro ancora e avanti così fino al finale. Alcuni spettatori mi hanno detto che sembrava di vedere un film ed in parte è vero perché nel film hai il piacere di sentirti raccontare una storia. Cosa che in Teatro spesso non avviene o perché si lavora sui classici e quindi le storie sono ben conosciute oppure si racconta sulla modalità della messa in scena che a volte rischia di offuscare la trama o comunque la storia, cioè quella che mantiene alta l’attenzione dello spettatore. In questo caso, il professore che interpreto, viene chiamato a gestire un corso di recupero per degli studenti sospesi per motivi disciplinari e si trova suo malgrado ad avere a che fare realmente con sei ragazzi al limite che trasformano le loro paure in rabbia, più o meno tutti quanti. Di conseguenza il professore si trova a dover gestire una situazione non facile ma la cosa che in qualche modo lo tiene legato è che in realtà lui è come loro, vent’anni dopo. È riuscito a riscattarsi in qualche modo, pur non essendo una figura completamente risolta. Riesce ad aprire dei varchi con alcuni di loro, non con tutti. Con altri lo scontro rimarrà aperto ed in alcuni casi si concluderà in maniera violenta. Il varco gli permetterà di dargli delle suggestioni, delle informazioni che gli permette di entrare in empatia con alcuni di loro. Ciò gli permette uno scambio proficuo che genera cambiamento ed in qualche modo riesce a trasformare la rabbia in una propulsione positiva.
Perché i giovani hanno difficoltà a legare il presente con un passato anche remoto e con un futuro prossimo? Parliamo sempre di paura e difficoltà?
Ritorno sempre all’empatia perché in questo momento sono sempre meno le opportunità di vivere in comunità. Quando ero ragazzo sarà stato l’interesse politico-sociale, avevo molte più occasioni di vivere in comunità. La scuola forse è l’ultima occasione che si ha di una vita comunitaria. Lo scambio quotidiano, il confronto, dopo diventano sempre di meno. Credo che la vita comunitaria ti permette di esercitare l’empatia, di conoscere e di entrare nei panni dell’altro. La mancanza di questo crea appunto dei filtri per cui sia il passato che il futuro diventano meno comprensibili perché quando vado nelle scuole a parlare di inclusione, accoglienza e d’integrazione, dico sempre ai ragazzi di fare uno sforzo grande, trasformare i simboli in carne viva perché noi siamo bombardati tramite internet ed i social di una serie d’informazioni, a volte anche delle bufale ma questo è un altro capitolo sempre importante. Le informazioni ci portano dei numeri, “l’arrivo del barcone con trecento immigrati, i flussi migratori crescono ed arrivano a cinque milioni”. La difficoltà di trasformare questi numeri in vite è un passaggio che deve essere esercitato, stimolato non solo nei ragazzi ma in molti di noi. Ci si deve rendere conto che quei trecento tra ragazzi, uomini donne e bambini che erano sul barcone rappresentano una vita. Bisogna fare attenzione alla sofferenza che deve essere sempre filtrata dall’informazione e dalla conoscenza. Si deve sempre avere rispetto per la sofferenza altrui pur dimostrando la propria indignazione. Uno degli strumenti che il professore propone per entrare in empatia con loro, è quello di partecipare ad un concorso sui giovani adolescenti, vittime dell’Olocausto. Tramite un escamotage, chiede ad un altro ragazzo di proporgli di parlare di uno dei genocidi che stanno avvenendo in questi giorni. Non si fa mai un esplicito riferimento nello spettacolo ma si parla della Siria. Per farlo, utilizza delle fotografie da far vedere ai ragazzi che sono ispirate alle foto che un militare siriano prima di darsi alla fuga, ha scattato per testimoniare ciò che sta avvenendo sotto il regime di Assad in Siria e che Amnesty International ha presentato a Roma. La decisione del regista di non mostrarle nello spettacolo, mai girate a favore del pubblico, né tanto meno proiettate ma solo sbirciate dai ragazzi, mi trova pienamente d’accordo. Portare la testimonianza è fondamentale ma è anche importante trovare un equilibrio tra indignazione ed etica che deve essere sempre tenuto d’occhio.
Quanto è rilevante la figura del professore per colmare i loro disagi?
È determinante perché i loro percorsi non sarebbero stati gli stessi senza l’arrivo di Albert che con fatica riesce ad aprire un varco in loro e che per alcuni diventerà occasione di riscatto che magari covavano all’interno come embrione ma se poi non ha qualcuno che attraverso un processo maieutico, attraverso un giusto supporto, non riesce ad esprimere, non riesce a tirare fuori, rimane embrione, diventando ancora di più generatore di rabbia. Se l’embrione del riscatto non viene in qualche modo stimolato poi va ad alimentare altre connotazioni.
La Classe è un testo molto attuale. Perché?
Innanzi tutto è stato scritto da un giovane drammaturgo eccezionale come Vincenzo Manna. Ho vissuto a Londra per molti anni, mi capita di leggere drammaturgia contemporanea anche in altre lingue e Vincenzo Manna è assolutamente uno dei più interessanti a livello europeo. Ha scritto questo testo ispirandosi ad una serie di avvenimenti e come dicevo prima basandosi su una ricerca sugli adolescenti, ha quindi avuto modo di conoscere come dati quantitativi alcuni pensieri degli adolescenti e poi si è ispirato a dei fatti di cronaca, la città d’ispirazione del testo è Calais in Francia dove c’è la giungla e nel testo si è trasformata nello Zoo. Non c’è mai un riferimento preciso, può essere rappresentato ovunque. Non c’è nessuna connotazione nazionale o dialettale. È un testo che ha ragion d’essere in qualsiasi luogo dell’Europa. I fatti di cronaca di cui si parla sono stati trasformati in avvenimenti da una penna splendida, supportata dalla regia di Giuseppe Marini, da una produzione (Società per attori) attenta come quella di Franco Clavari e anche dagli attori. Senza queste persone non si riesce a realizzare uno spettacolo come quello che è venuto fuori. Le scene sono di Alessandro Chiti, i costumi di Laura Fantuzzo, le luci di Javier delle Monache e le musiche splendide di Paolo Coletta. Ho l’opportunità di condividere il palco con otto fenomeni, nel senso che sono attori di altissimo livello quali Cecilia D’Amico, Valentina Carli e Giulia Paoletti. I ragazzi sono Haroun Fall, Carmine Fabbricatore ed Edoardo Frullini. Ci sono inoltre Tito Vittori nel ruolo del Preside e la splendida Ludovica Modugno nel ruolo della rifugiata. È uno spettacolo corale che vive delle azioni e reazioni di una classe. Nel 60% dello spettacolo siamo sette attori in scena e se l’incontro, il confronto, la potenza interpretativa non sono omogenei o di un livello medio alto, si fatica.
Come sono stati scelti i ragazzi?
Tramite delle audizioni mirate, io vengo dall’Accademia Silvio D’Amico ed il passaggio che ho fatto è stato quello di guardare ai ragazzi diplomati negli ultimi anni e ne abbiamo trovati tre: Carmine Fabbricatore, Cecilia D’Amico e Valentina Carli. Dal Centro sperimentale Haran Fall e Giulia Paoletti ed Edoardo Frullini vengono dalla Scuola della Regione Lazio “Pier Paolo Pasolini”.
Elisabetta Ruffolo