L’ennesimo attentato in Europa ha riacceso le polemiche sul grado di sicurezza nelle nostre città e, naturalmente, soffiato sul fuoco dell’emergenza immigrazione, che da tempo sta mettendo a dura prova le capacità organizzative e la tenuta sociale dei paesi europei, in particolare quelli che si affacciano sul Mediterraneo.
Le reazioni dei partiti e dei cittadini sono state come al solito molto diverse e non è mancato chi ha tentato di rinforzare la connessione tra immigrazione e terrorismo di matrice islamica.
La crisi d’identità dell’Unione Europea, alla quale si è dal 2008 sovrapposta quella economica, dura da almeno quindici anni e ha lasciato spazio a chi propone soluzioni semplici e rapide a problemi molto complessi.
In Italia le persistenti difficoltà economiche (plasticamente rappresentate da un tasso di disoccupazione che non accenna a scendere al di sotto dell’11%), il malumore per il quasi inesistente supporto dell’Unione Europea per fronteggiare i flussi migratori e la discutibile gestione dei centri di accoglienza dei profughi rendono il clima sociale decisamente sfavorevole ad un dibattito costruttivo sul tema immigrazione.
Eppure, vale la pena insistere sulla necessità di neutralizzare gli slogan populisti che suggeriscono l’equivalenza tra immigrato clandestino e delinquente o tra rifugiato musulmano e terrorista, oppure che presentano quella musulmana come una religione incline al terrorismo.
Si tratta di semplificazioni non accettabili. Sarebbe come rappresentare la storia dell’emigrazione italiana attraverso la biografia di Al Capone. Con i milioni di disperati sbarcati a Ellis Island arrivarono i Genovese e i Gambino, ma anche i Joe Petrosino e i Fiorello La Guardia.
La storia dell’emigrazione italiana nel Nuovo mondo tiene insieme episodi nei quali siamo stati vittime e altri in cui siamo stati carnefici: il linciaggio di 11 emigrati italiani a New Orleans nel 1891 (i nostri conterranei furono accusati, senza prove a sostegno del capo di imputazione, dell’omicidio del capo della polizia di quella città); la bomba che anarchici italiani fecero esplodere nel 1920 a Wall Street (38 morti e due milioni di dollari di danni); l’esecuzione di Sacco e Vanzetti, ingiustamente accusati nell’atmosfera avvelenata della Red Scare dei primi anni Venti; lo sviluppo della malavita organizzata nel periodo del Proibizionismo, di cui Alfonso Capone fu uno degli esponenti di spicco.
Eravamo discriminati e tenuti ai margini della società perché considerati violenti; perché accettavamo di essere sottopagati e quindi “rubavamo il lavoro alla gente del posto”; perché eravamo portatori di tradizioni popolari ritenute arcaiche e simboleggiate dalle processioni religiose che percorrevano le strade delle molte Little Italies; perché vivevamo nei “tenements” – i palazzoni popolari sovraffollati – di New York e Boston in condizioni igieniche considerevolmente al di sotto degli standard del posto; perché ci accusavano, in quanto cattolici, di essere agenti del complotto papista che voleva sovvertire la società americana, a larghissima maggioranza protestante.
Sarebbero servite diverse generazioni per superare la barriera di pregiudizi che per lungo tempo aveva frenato l’integrazione dei nostri nonni e dei loro figli, nati nel Paese ospitante ma non graditi dalle comunità già residenti. Soltanto molto tempo dopo sarebbero stati accettati e applauditi personaggi come Dino Crocetti (Dean Martin), Madonna Louise Veronica Ciccone (Madonna), gli Scorsese e i Minelli e a New York avrebbero eletto sindaci come Rudolph Giuliani o Bill De Blasio.
Basterebbero questi pochi elementi per trovare diversi punti di contatto tra i nostri emigranti di un secolo fa e che sbarcano oggi sulle nostre coste.
Tuttavia, c’è il fattore terrorismo, si dice, che per noi non esisteva. Anche noi eravamo poveri e disperati, ma non per questo andavamo in giro a far saltare in aria palazzi o ad uccidere le persone per la strada o nei locali. E’ vero. Benché gravi episodi di sangue di cui i nostri emigranti furono responsabili non manchino, non è possibile paragonare quei fatti agli attentati che stanno lasciando lunghe scie di morti nelle strade e nei locali delle città europee. Non era presente, allora, una strategia del terrore unitaria, come invece sembre esistere oggi, con l’Europa – ma non solo l’Europa – che subisce la minaccia e i tragici effetti del terrorismo di matrice islamica, anni fa riconducibile ad al-Qaeda e più recentemente attivo sotto le insegne dell’autoproclamato Stato Islamico.
Sgombrato il campo dai due stereotipi estremi, “Italiani brava gente” e “Italiani dagoes con il coltello in tasca sempre pronto a colpire”, fuorvianti come etichette ma entrambi contenenti una parte di verità, possiamo prendere in considerazione l’altro aspetto non marginale: quello relativo alle motivazioni che spingono decine di giovani di fede islamica, spesso nati e cresciuti nelle nostre città, a sacrificare la propria vita pur di uccidere il maggior numero di persone possibile, innocenti per noi, infedeli per loro.
Lo strumento adottato dai terroristi, la strage di persone coinvolte casualmente, è condannabile senza tentennamenti, ma se non vogliamo restare ancorati al mezzo usato, è necessario interrogarci sulle cause che originano questi gesti folli.
L’emarginazione e il disagio sociale sperimentato nelle periferie degradate delle nostre città dai ragazzi di seconda e a volte terza generazione di immigrati originari dell’Africa o dell’Asia può in parte spiegare l’adesione alla causa jihadista. La quale tuttavia è preesistente ed ha origini lontane che si chiamano colonialismo e Guerra fredda, malgrado settori non marginali della pubblica opinione e dei partiti tendano a minimizzare il peso delle responsabilità storiche dell’Occidente nel suo insieme.
In un saggio di un paio di anni fa, uno storico esperto di Guerra fredda scriveva: “E’ facile, dunque, considerare la Guerra fredda nel Sud del mondo come il proseguimento degli interventi coloniali europei e dei tentativi, sempre europei, di controllare le popolazioni del Terzo mondo” [cfr. Odd Arne Westad, La Guerra fredda globale, il Saggiatore, 2015, p. 5].
Dalla fine della Seconda guerra mondiale e per quasi tutta la seconda metà del XX secolo, Stati Uniti e Unione Sovietica hanno proiettato la loro competizione, “fredda” sullo scacchiere europeo, trasformandola in una serie di conflitti “caldi” praticamente su tutti i paesi di quello che una volta era definito Terzo Mondo: America latina, Africa e Asia.
La Guerra fredda ha alterato il processo di decolonizzazione in Africa e Asia. Ciascuna delle due superpotenze ha tentato di proporre, e non di rado di imporre con la forza delle armi, il proprio modello economico, politico e sociale a Paesi che non erano pronti né per il capitalismo né per il socialismo sovietico. Il cosiddetto sistema “a somma zero” – un vantaggio per una superpotenza si traduceva automaticamente in una perdita per l’altra – spingeva americani e sovietici a intervenire in teatri lontanissimi non tanto e non solo per procurarsi vantaggi, ma innanzitutto per penalizzare il nemico.
Dittatori e satrapi dei tre continenti coinvolti nel conflitto ideologico tra Usa e Urss hanno approfittato delle circostanze per ottenere finanziamenti e armamenti che hanno largamente usato contro i propri governati per zittire le opposizioni e concorso, con le potenze occidentali, alla spoliazione delle risorse del proprio Paese. Mosca e Washington hanno armato e sostenuto, con il pretesto di difendere la giustizia sociale o la libertà, dittatori sanguinari solo perché funzionali ai loro obiettivi strategici e non per affinità ideologica. Come nel caso di Siad Barre, dittatore della Somalia, armato e sostenuto da Mosca fino al 1977 e quindi finanziato e appoggiato da Washington nella guerra contro l’Etiopia di Menghistu.
Per gli Stati Uniti il primo clamoroso fallimento dell’interventismo planetario è stato la guerra in Vietnam; pochi anni dopo l’ingloriosa fuga in elicottero degli americani dai tetti dell’ambasciata statunitense a Saigon, l’Unione Sovietica avrebbe vissuto un’esperienza simile in Afghanistan, invaso dall’Armata rossa per cercare di puntellare il traballante governo filo-sovietico.
I Paesi del Terzo mondo avevano già provato a sperimentare, a partire dalla Conferenza dei “Paesi non allineati” di Bandung nel 1955, un percorso di sviluppo equidistante dalle due superpotenze. L’esperimento era però naufragato sia per responsabilità dei Paesi interessati sia per il peso delle ingerenze di americani e sovietici.
Alla fine degli anni Settanta, la rivoluzione islamica in Iran e la reazione all’invasione sovietica dell’Afghanistan hanno reso palese che una parte della comunità musulmana considerava il mondo capitalista e quello comunista invasori alla stessa stregua. Il risentimento nei confronti dei due blocchi trovava un potente collante nella religione islamica, che in molti casi consentiva di smorzare le antiche rivalità etniche e tribali, convogliando le energie nella comune lotta ai due “grandi Satana”, Usa e Urss.
I conflitti scatenati nel Terzo mondo all’interno della cornice della Guerra fredda hanno provocato ovunque morte, distruzione delle infrastrutture e del territorio, hanno alimentato gli attriti tra le diverse etnìe che convivevano nello stesso territorio e le hanno armate l’una contro l’altra.
Angola, Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia, Mozambico, Ruanda, Yemen, Libano, Iraq, Iran, Afghanistan. E’ un elenco, parziale, dei Paesi asiatici e africani che nella seconda metà del Novecento hanno subito pesanti ingerenze da Stati Uniti e Unione Sovietica, direttamente o dai loro alleati, e che si sono aggiunte ai soprusi e alle spoliazioni dell’era coloniale.
Ma il quarto di secolo trascorso dalla fine della Guerra fredda non ha migliorato i rapporti Nord-Sud.
Le operazioni militari statunitensi in Afghanistan, iniziate nel 2001 come reazione all’attentato alle Torri Gemelle per dare la caccia ai terroristi di Bin Laden, si sono trasformate in una presenza militare permanente della coalizione a guida Usa. Dopo sedici anni di bombardamenti non sempre effettuati su obiettivi militari e decine di migliaia di vittime civili, il paese è ben lontano dalla pacificazione.
La sconsiderata invasione dell’Iraq nel 2003 decisa dal presidente George W. Bush – erano gli anni della “esportazione della democrazia” – ha trascinato il paese in una guerra civile senza fine. Peraltro, le accuse rivolte a Saddam Hussein di detenere armi di distruzione di massa e finanziare al-Qaeda si sono rivelate del tutto infondate – a conferma dei dubbi avanzati da più parti già prima che scattassero le operazioni militari – e hanno alimentato la convinzione che l’invasione fosse stata pianificata a prescindere dalle motivazioni addotte dall’amministrazione Usa.
L’intervento militare in Libia nel 2011, attuato su iniziativa di Francia e Gran Bretagna per abbattere il regime di Gheddafi, ha reso ingovernabile la nazione e accresciuto il risentimento anti-occidentale.
Più recentemente, l’Occidente “ampliato”, se così vogliamo chiamare l’insieme degli stati che un tempo appartenevano ai due blocchi organizzati militarmente nella Nato e nel Patto di Varsavia, ha avuto un atteggiamento a dir poco ambiguo nei confronti della guerra civile siriana. Le esitazioni e poi il tardivo intervento di Washington, l’ingresso di Mosca nel conflitto, i bombardamenti francesi come ritorsione per gli attentati a Parigi nel novembre 2015, il tentativo di escludere dal tavolo dei negoziati Paesi importanti come l’Iran e le polemiche continue tra Stati Uniti e Russia sul destino di Assad e sulle prospettive delle popolazioni curde non hanno certo aiutato a migliorare l’immagine dell’Occidente agli occhi delle popolazioni locali.
Pur condannando l’uso del terrore come strumento di lotta politica, è comprensibile che una parte del mondo musulmano possa avere alcuni buoni motivi per odiare l’Occidente “ampliato”?

Giovanni Ciprotti