Un compositore poliedrico e coltissimo, come appare dal suo ultimo lavoro presentato in prima assoluta al Teatro alla Scala, Salvatore Sciarrino, nato a Palermo il 4 aprile 1947, ha appena celebrato il suo settantennio e il grande teatro milanese gli ha commissionato, in collaborazione con il Festival Milano Musica, in coproduzione con la Staatsoper Unter den Linden di Berlino e con il sostegno della Ernst von Siemens Music Foundation, una nuova opera in due atti e venti scene: Ti vedo, ti sento, mi perdo, su libretto dello stesso autore, a cura delle Edizioni Musicali Rai Com.

Il lavoro esibisce un amplissimo repertorio di reminiscenze musicali, pittoriche e poetiche che si affollano quasi in una struttura o una trama polifonica di passi, figure, tratti, spunti melodici, armonici e stilistici di ben quattro secoli di opera lirica. L’ambito ricorrente questa volta è quello barocco che ha ispirato per via direttamente musicale o indirettamente poetica e artistico figurativa gran parte della produzione di Sciarrino: quali Vanitas (1981), Morte di Borromini (1988), Luci mie traditrici (1998), Terribile e spaventosa storia del Principe di Venosa e della bella Maria (1999), 12 Madrigali (2007). Lo spettacolo in scena a Milano cui ho assistito nella sua ultima recita, il 26 novembre, si impernia attorno all’inquietante figura seicentesca del compositore e cantante Alessandro Stradella, la cui vita rocambolesca, come un Caravaggio della musica, dopo mille avventure finisce a Genova per mano di un sicario nel 1682.

Da qui partono gli innumerevoli spunti allusivi all’immaginario culturale: la stessa assenza di Stradella, che tutti i personaggi in scena aspetteranno invano (il sottotitolo dell’opera è infatti In attesa di Stradella), evoca la famosa pièce di Samuel Beckett En Attendant Godot. Solo nel finale giungerà la notizia del suo assassinio. Questa la trama a grandi linee, ma la struttura drammatica dell’opera è costituita da tre dimensioni distinte – per personaggi, vicende, stilizzazioni musicali e accompagnamento strumentale – che l’autore articola in modo quasi cinematografico in venti scene, ma solo dalla quindicesima queste cominciano ad intrecciarsi (leggo dalle note di sala di Gianluigi Mattietti). La struttura è soprattutto dialogica, sullo stile rivisitato del recitar cantando, cui si adeguano voci e strumenti.

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La prima delle suddette dimensioni forma la drammaturgia generale ed è quella delle prove di una cantata. Qui vigono giochi di elaborazione metateatrale e metamusicale in cui domina la figura della Cantatrice con il Coro con continui riferimenti alla mitologia (Ulisse e le Sirene) e ai mitologemi connessi con la musica (Orfeo e il suo canto) nella scena 18 Morendo crea il divino Orfeo. Sciarrino rivisita anche il modulo compositivo del Durkcomponiert quando intona due Haiku in stile madrigalistico nella scena 13 e del puntillismo in Ecco mormorar l’onde e ne L’antico stagno.

La seconda dimensione è quella incentrata sui personaggi del Musico e del Letterato che attendono l’arrivo di Stradella disputando di estetica musicale e di architettura. Prevale quindi il carattere dialogico: qui lo strumentale è ricco di tensione, accompagnato da un sottofondo “ventoso” prodotto a livello strumentale con una lastra, con interventi soffiati del flauto (scena 2), lunghi trilli e glissati di armonici – peculiari della scrittura musicale di Sciarrino- (scena 7) e i glissati del trombone fuori scena (scena 16). A questi timbri ricreati si aggiunge il rumore notturno delle casse di bottiglie che vengono scaricate per evocare “uno dei segni della violenza fisica del nostro tempo” (scena 19).

Infine la terza dimensione è quella dei servi che intercalano lo sviluppo dell’azione con interventi buffi e parodistici, ma in realtà la fanno anche procedere dando notizie su Stradella e sul suo presunto arrivo. Qui aumentano le schermaglie e gli intrecci polifonici ritmico-agogici con uno stile percussivo. Il riferimento alla condizione operaia di questi personaggi fa pensare ad una gerarchia individuabile all’interno dell’opera modellata su quella che il filosofo Diego Fusaro riconosce nella società odierna: bellatores, orantes e laborantes, cioè una dimensione apicale, costituita da figure imponenti e combattive, quella intermedia degli intellettuali e quella subalterna dei lavoratori servi del sistema. Anche qui lo stile dialogico è preponderante ma accompagnato da ritmi sfasati e incisivi eseguiti dall’arpa (suonata a dita unite sulla tavola) e dal pianoforte (suonato con bacchetta dura sul tramezzo). Lo spirito è quello dell’opera buffa e i servi – Minchiello, Finocchio, Solfetto, Chiappina e Pasquozza- sono caricature anche di se stessi: tic vocali, balbuzie, mugolii, rutti e singulti.

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Il resto è reminiscenza musicale evocatrice di gesti melodici e armonici alla Schubert e Chopin, ma liofilizzati e rarefatti con ricercata raffinatezza, variando i registri espressivi e vocali, le dinamiche e la timbrica cui si alternano, in una fusione eterogenea quasi chimico alchemica, – lo stesso Sciarrino si definisce musicista fusion – cantate di Alessandro Stradella quali Ch’io nasconda il mio foco introdotta dal pianoforte da lontano con il taglio ritmico di una mazurka di Chopin, e citazioni madrigalistiche dall’altrettanto seicentesco Gesualdo da Venosa. Intessuto di ascendenze dotte, il libretto si basa su svariate fonti poetiche (Apollonio Rodio, Matsuo Bashō, Ovidio, Rainer Maria Rilke), drammatiche (Il tradimento per l’onore di Francesco Stromboli) e documentali (Vita di Alessandro Stradella di Remo Giazotto e Orfeo barocco di Giovanni Iudica.

Per rendere ragione del titolo, al di là del suo afflato poetico, si può notare che Ti vedo, ti sento, mi perdo affonda le sue tematiche nel “distacco prima di perdersi, che si mescola con riflessioni sul processo della creazione artistica, e la centralità, nella natura umana, della presenza fisica del corpo, dei sensi e della passione”. Il tutto si fonda infine sulla stratificazione di stili e stilemi, di generi come storia e mito in una dissociazione onirica che ovviamente non tiene in nessun conto la continuità spazio-temporale.

La regia di rgen Flimm, è affascinante: il carattere quasi necrofilo del recupero o meglio repechage di lacerti gestuali del mondo barocco in un misto di antico e postmoderno senza nessun coinvolgimento emotivo, anzi con ironia, faceva del palcoscenico uno spazio aperto- a vista gli apparati tecnici del teatro sullo sfondo- e una ulteriore fusion si realizzava con la presenza in particolare durante l’Intermezzo, di personaggi e figuranti dal costume barocco, ma anche due geishe, un angelo, Wotan, un uomo vestito da suora (una allusione al Conte Ory rossiniano?): il lunghissimo funerale che si celebra da quasi un secolo all’opera lirica trova anche in Flimm e Sciarrino altri due suoi cantori.

Le scene di George Tsypin rimandavano ad una sala di Palazzo Colonna a Roma con pochi simboli una pedana sovrastata da quattro colonne in plexiglass, lampadari di cristallo, veli in lino, fondali dipinti, sedie bianche ed un tavolo; il resto rimpinzato dai preziosi costumi di Ursula Kudrna che si stagliavano come suggestive macchie di colore: più settecentesco quello della Cantatrice, in stile reggenza quelli del Musico, del Letterato e del Giovane Cantore, decisamente circensi quelli dei servi Pasquozza, Chiappina, Solfetto, Finocchio e Minchiello, che richiamavano la commedia dell’arte; il tutto esaltato dalle luci di Olaf Freese improntate ad una scelta cromatica di ampio ma garbato spettro; lontana da eccessi retorici la coreografia di Tiziana Colombo con piccole danzatrici in tutù e piccoli danzatori in abito nero seicentesco.

Sul podio dell’Orchestra del Teatro alla Scala, distribuita tra golfo mistico, palcoscenico, palchi di proscenio e fuori scena, il giovane direttore Maxime Pascal, che si è mosso con sicurezza tra tante rarefazioni orchestrali, ed ha esibito tanta disinvoltura in questo tipo di repertorio contemporaneo fatto di evanescenze, punteggiature strumentali e sfasamenti ritmici continui.

Nel versante del cast vocale spiccava il soprano Laura Aikin nel ruolo della Cantatrice dalla presenza già collaudata in opere del Novecento quali Dialogues des Carmélites, Ariadne auf Naxos, Lulu e Die Soldaten, dalla vocalità di soprano lirico ben delineato da un colore corposo e dalla buona comunicativa attoriale che rendeva credibile l’autorità della primadonna giocata tra l’ironico e l’elegiaco. Frizzante vocalità ben spesa anche dal punto di vista scenico quella della Pasquozza del soprano Sónia Grané; buon profilo scenico vocale quello del mezzosoprano Lena Haselmann nel ruolo di Chiappina. Il tenore Charles Workman nella parte del Musico è stato straordinario nella dizione, nella varietà di fraseggio e uguaglianza di registri; non così nella dizione il Letterato del basso-baritono Otto Katzameier, seppur incisivo nella vocalità; più difficile l’ascolto del controtenore Thomas Lichtenecker in un Solfetto piu votato alla resa caricaturale del personaggio, ma la sua emissione era molto naturale e ben proiettata; eloquente e prestante in senso vocale era il baritono Christian Oldenburg nei panni di Finocchio; sensibile e virtuoso il basso Emanuele Cordaro in Minchiello ha reso con pieni timbro e appoggio sul fiato i balbettii richiesti dal ruolo che riecheggiano il tipico sillabato del basso buffo. Freschezza di vocalità ed eleganza di portamento nel Giovane Cantore del baritono Ramiro Maturana, allievo dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala. Il Coro a sei voci composto da Massimiliano Mandozzi, Chen Lingjie (allievo del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano) e dai solisti dell’Accademia del Teatro alla Scala Hun Kim, Oreste Cosimo, Sara Rossini e Francesca Manzo è risultato puntualmente speculare al carattere interpuntivo della compagine strumentale.

Alla fine il successo è stato decretato a tutti gli artisti da un pubblico numeroso che, all’ultima recita dell’opera, è apparso sempre più conquistato e convinto della sua peculiare bellezza e del valore dei suoi interpreti.

Andrea Zepponi

Tutte le foto sono di Matthias Baus ©.

Teatro alla Scala

Stagione d’Opera e Balletto 2016/2017

TI VEDO, TI SENTO, MI PERDO

Opera in due atti su musica e libretto di Salvatore Sciarrino

Direttore Maxime Pascal

Regia rgen Flimm

Collaboratore del regista Gudrun Hartmann

Scene George Tsypin

Costumi Ursula Kudrna

Luci Olaf Freese

Coreografia Tiziana Colombo

Cantatrice Laura Aikin

Musico Charles Workman

Letterato Otto Katzameier

Pasquozza Sónia Grané

Chiappina Lena Haselmann

Solfetto Thomas Lichtenecker

Finocchio Christian Oldenburg

Minchiello Emanuele Cordaro

Giovane Cantore Ramiro Maturana

Coro Hun Kim, Massimiliano Mandozzi, Chen Lingjie, Oreste Cosimo, Sara Rossini, Francesca Manzo

Orchestra del Teatro alla Scala

Nuova produzione 26 novembre 2017